Cittadine sulle rive di fiumi, paesaggi vasti, cascate e dune rosse aspettano il turista che decide di avventurarsi in questa regione incontaminata del centro ovest brasiliano
A volte, viaggiare è come meditare. È come se uno entrasse nella pancia del mondo, per potersi liberare del corpo e, forse, raggiungere se stessi. Sì, certo, parlo del “viaggio”, ma uno di quelli diversi. Un vagabondare con cui si percorrono le strade della Terra, attraverso un cammino indicato da forze incoscienti che si materializzano fuori e dentro di noi. È con questo stato d’animo, con cui iniziai a dicembre, uno dei più bei percorsi fatti con Zezeh Barbosa, la companheira di viaggio e di vita, con la quale — a bordo di Bolinha, il querido Volkswagen Gol 1000 del 2004 — abbiamo percorso 11.400 chilometri a Nord del paese, dove esiste, sconosciuto, uno sterminato Brasile che, spesso, s’ignora come una parte di noi stessi.
Alla fine di dicembre lasciammo Rio de Janeiro, senza sapere, dove esattamente andare. Desideravamo muoverci a Nord, percorrendo strade secondarie, sterrate, lontane da caselli autostradali e autogrill ma soprattutto dalle città. In realtà, nella testa, avevo sì un luogo che avrei voluto raggiungere, ma lo temevo. Era Jalapão, la remota area selvaggia della Serra Geral, nel lontano Tocantins, dove esiste uno dei minori indici demografici del paese e, seppure il luogo sia considerato splendido, magico, misterioso, naturale, anzi primordiale, è rischioso avventurarsi con un’auto come Bolinha. Avrei incontrato strade insormontabili, dure e insidiose. Avevo letto, però, il resoconto d’alcuni temerari viaggiatori, i quali riportavano nei loro racconti che era possibile attraversare Jalapão nella stagione delle piogge, quando la sabbia diventava dura e permetteva ai visitatori senza fuoristrada di percorrerlo. Per esperienza ho imparato a rispettare l’energia della natura, la quale agisce dentro e fuori di noi. Avrei quindi incontrato shakti, la forza che muove tutto nell’universo, anche sulle rosse strade di Jalapão. Nonostante ciò, non riuscivo a togliermi dalla testa la temuta idea, divenuta ormai palpabile nella mente, man mano che salivamo a Nord, verso Minas Gerais. Rimanemmo alcuni giorni nello stato mineiro, seguendo il consiglio di Giuseppe, l’amico italiano e vicino di casa, il quale ci consigliò il parco nazionale della Serra da Canastra, dove, oltre a mangiare il tipico formaggio stagionato, avremmo potuto vedere la mitica cascata di Casca D’Anta e il rossastro ruscello che forma a valle uno dei fiumi più leggendari del Brasile, il Rio Sāo Francisco. Nel parco Bolinha rotolava bene, percorrevamo strade simili a dei capillari sterrati, tracciati ad alta quota sull’altopiano del parco.
— Caspita! Andate fino a Jalapão. È un bel posto. Penso che potreste farcela, ma non chiedete informazioni agli hotel e tantomeno alle agenzie turistiche di Ponte Alta, altrimenti vi diranno che siete dei pazzi ad avventurarvi da soli con la vostra auto. Ve lo diranno per spaventarvi e vendere un tour organizzato — mi rispose Antonio Rabelo, il padrone della posada Entreposto a Sāo Roque de Minas, dove chiesi informazioni su Jalapão. La risposta di Antonio incoraggiava, ma allo steso tempo impensieriva.
Lasciammo la serra attraversando l’intero parco, percorrendo una misteriosa strada sterrata che condusse sulla BR, dove continuammo il viaggio a Nord, sempre più lontano, fino a raggiungere Goiás. Traghettammo la frontiera sul Rio Grande, un bel fiume che mi fece sentire d’essere definitivamente lontano da casa. Dopo la cittadina di Catalão, dove si respira aria di frontiera, la natura lentamente cambiava aspetto, diventava uno di quei paesaggi agricoli monotoni e minimalisti, a causa degli sconfinati campi di soia, la commodity verde che avanza tragicamente in Brasile.
Le giornate in viaggio erano scandite dal silenzio, ma anche da discorsi nati dal nulla che facevano sfociare improvvise conversazioni sorte da imprevedibili spunti. Il tempo non esisteva, era scomparso, sostituito dal presente che apriva sempre più la dimensione cara a tutti i viaggiatori, quella di essere in transito nello spazio. Ogni tanto, ci si fermava per sentire la sensazione di un luogo, per fare quattro passi in mezzo al nulla, dove non avresti mai pensato di fermarti nella vita.
Zezeh osservava la rotta tracciata dall’istinto sulla mappa. Lo faceva con un frammento di lente d’ingrandimento, i resti di un regalo che non osavo gettare. La mappa era magica, perché manteneva tra le mani la tridimensionalità della vita; d’altronde le carte racchiuse nel cellulare erano inutili, giacché il segnale 3G era sempre fuori uso. Sulla strada i cartelli che indicavano Brasilia e Goiânia diventavano frequenti, avvisandomi che era giunto il momento di decidere se fare rotta per Ponte Alta in Tocantins, la prima città di Jalapão, dove terminava l’asfalto e si aprivano le porte dell’immenso cerrado. Non riuscivamo a deciderci, allora ricordai che, non distante, si trovava Abadiânia, una città a metà strada tra Brasilia e Goiânia, dove c’era la casa Dom Inácio de Loyola, il centro in cui il medium Joāo de Deus realizzava chirurgie spirituali. Avevo conosciuto il medium anni prima, quando coprivo un reportage. All’epoca mi ero ripromesso di tornare alla casa, poiché ero stato sedotto dall’atmosfera mistica del posto, grazie anche alla presenza di centinaia di meditatori, i quali formavano la catena energetica che permetteva al medium d’attendere una moltitudine di persone.
Il giorno successivo all’arrivo, eravamo in fila per essere attesi da Joāo de Deus in trance, il quale, anche questa volta, mi sorprese, perché mi disse d’entrare nella catena a meditare con gli altri. Lo feci per cinque giorni, mattina e pomeriggio, assieme a meditatori provenienti da ogni parte del mondo.
La meditazione portò chiarezza e forza mistica al viaggio che riprendevamo, quando Abadiânia si svuotò dei visitatori, ormai tornati sulle proprie strade nel mondo. Lo facevamo anche noi, con il cuore leggero e la voglia d’andare a Jalapāo. All’imbrunire, ci mettevamo alla ricerca di alberghi, dove pernottare. Non era difficile trovarne di piacevoli ed economici. Era in questi momenti che apprezzavamo Bolinha, poiché, per sceglierli, ci permetteva d’andare ovunque. Incontravamo sempre gente interessante, con cui scambiare belle conversazioni.
Ci sorprendevano in viaggio, i prezzi incontrati realmente bassi ovunque.
— Dovete andare a Terra Ronca, è un posto meraviglioso, là troverete la grotta con la seconda apertura più grande del mondo! — ci disse Dalmo Sylva all’hotel Texas.
Dalmo era di Sāo Domingo, un paesino prossimo a Terra Ronca. Il parco si trova nel Nordest Goiano, tra le cittadine di Guarani e Sāo Domingo, a circa 400 chilometri da Brasilia. È un’area prossima a Jalapāo e, quindi, pensammo di partire per il parco il giorno dopo. La grotta di Terra Ronca ci apparve all’improvviso, imponente, dopo avere percorso 45 chilometri di strada sterrata.
— Fantastico! — esclamai, quando vidi decine di Arara sorvolare l’immensa entrata della caverna, dove s’incuneavano un fiume cristallino e una lussureggiante vegetazione tropicale. Percorremmo la grotta il giorno dopo, con Ramiro Ilario, la guida più famosa del posto, il quale conosceva a fondo l’area e le numerose caverne intorno. Alloggiavamo nella sua posada, dove la sera si radunavano amici e viaggiatori per conversare sotto un arazzo di stelle.
— Certo che il Gool ce la farà, l’importante e non fermarsi mai, metti la seconda e vai senza esitare — mi consigliò Ramiro, prima che ripartissimo per Jalapāo.
Ponte Alta è un’estesa cittadina sulle rive dell’omonimo fiume, dove trovammo un bell’albergo di fronte al corso d’acqua.
— È una follia andare a Mateiros con quell’auto, v’impantanerete, è rischioso — esortò Elisa, la proprietaria della locanda. Mi ricordai delle parole di Antonio a serra della Canastra e chiesi ad altri sulla condizione della strada. La gente più umile, a bordo di sgangherate auto, riteneva che non ci sarebbe stato problema, ma le persone più agiate erano di parere opposto. La decisione arrivò da sola. Prima di partire cambiai uno pneumatico e feci alcune riparazioni all’auto.
Il giorno della partenza, ci svegliammo presto, quando il fiume era ancora più silenzioso. Bolinha era bagnata dalla bruna mattutina, aprii la porta, come se fosse quella di casa e misi acqua da bere in abbondanza e cibo nel sedile posteriore, dove si trovavano già pronte corda e pala per un eventuale impantanamento. Io e Zezeh ci guardammo con intesa e messi in moto per iniziare il salto di 799 chilometri che ci separavano da Mateiros. La strada uscendo dalla città divenne subito sterrata, ma non disastrosa.
— Fino qui, tutto bene — dissi a Zezeh che era incantata dal paesaggio che diventava sconfinato e selvaggio.
La strada sull’auto era una sfida, con la carreggiata lacerata da buche, pietre
e banchi di sabbia
Il silenzio tagliato dal vento annunciava un cammino seduttore e misterioso. Non c’erano case e non s’incrociava nessuno. La vastità del paesaggio ci portava a una dimensione eterea, nonostante la durezza della strada e del calore che diveniva sempre più intenso. La carreggiata sembrava che terminasse all’orizzonte, dove i vertici della strada si univano irraggiungibili, ma una volta arrivati in cima ai declivi, un nuovo lungo e infinito cammino si stagliava di fronte.
La prima saccatura di arena la incontrammo scendendo uno di questi declivi. Mi fermai per osservarla e ricordai i consigli di Ramiro:
— Vai in seconda e non fermarti.
Ingranai la marcia e puntai dritto ai due profondi solchi tracciati dalle ruote di fantomatici veicoli. Entrammo in apnea nella sabbia, da dove ne uscì Bolinha agile e libera. Il secondo “bolçāo de areia” arrivò poco dopo, segnalando che il temuto Jalapāo mostrava definitivamente i muscoli. Questa volta non mi fermai ed entrai con sicurezza, con la certezza che la tecnica avrebbe funzionato.
La strada era diventata per noi una sfida. Bolinha rollava letteralmente sulla carreggiata lacerata da buche, pietre e banchi di sabbia. Temevo per l’auto che avrebbe potuto smontarsi in mille pezzi, o i suoi pneumatici fossero squarciati dalle rocce taglienti. Bloccarsi in quel posto sarebbe stato letale, e tornare indietro era fuori discussione. All’improvviso la strada migliorò e approfittammo per fare una sosta sotto un albero. L’ombra raffreddava il motore caldo che lentamente spensi. Il silenzio all’esterno placò i timori e mostrò il lato magico di Jalapão. All’orizzonte si stagliavano remote chapadas che erano il segno inequivocabile che eravamo sui resti di un immenso oceano.
La natura era generosa e ripagava lo sforzo di quel viaggio avventuroso che ci portava sempre più lontano dal nostro passato. Ero felice di essere con Zezeh in quell’affascinante luogo che avrei potuto ricordare, con lei, un giorno. Riprendemmo il cammino sereni, anche perché la strada era apparentemente migliorata, fino a quando in una delle consuete discese, un lungo e profondo banco di sabbia ci barrava il cammino. Non permisi alla mente di pensare, sapevo che questo mi avrebbe bloccato e accelerai istintivamente. Con la seconda ingranata, irrisoluto, puntai su quel lungo tubo di arena: il Gol entrò con forza nella sabbia altissima, accelerai a tavoletta e Bolinha avanzò a salti in quell’interminabile canale minaccioso. Non osavo guardare Zezeh, ma l’avvertivo scongiurare, con tutte le sue forze, l’universo per aiutarci a uscire di là. Il volante vibrava violentemente e il motore ruggiva aggressivo. Quando sembrava che il Gol stesse per capitolare, la strada riacquistò il suo aspetto normale e Bolinha riemerse dalla sabbia di nuovo libera. Ci fermammo un attimo per riprenderci da quegli istanti che durarono un’eternità. Guardai Zezeh e sentimmo la stessa sensazione nella pancia, ma anche quella di averla fatta franca.
Arrivammo a Mateiros nel tardo pomeriggio, con vento e molta sabbia nell’aria. La città sembrava uno scenario di film Western. Trovammo facilmente alloggio in una posada e poche ore dopo eravamo già in strada. Zezeh puntò dritto al vicino negozio della cooperativa degli artigiani del Capim dourado, il famoso vegetale che cresce nell’area ed è divenuto famoso nel mondo. Il posto sembrava una gioielleria, per come i splendidi oggetti artigianali brillassero. I prezzi erano bassissimi, ma la simpatica commessa ci avvisò che non era possibile, nella stagione delle piogge, ammirare il capim dourado luccicare al sole.
Il giorno dopo, cominciammo a esplorare i dintorni di Mateiros, divenuta la base per le escursioni. Il Jalapão non è un deserto: la regione combina paesaggi tipo savana e cerrado. Nascosti nel territorio, ci sono fiumi, piccole spiagge e rapide, percorsi da oasi di fitta vegetazione intorno a sorgenti, cascate e fervedouros, i pozzi con sabbia finissima in sospensione che impedisce l’affondamento. Il giorno dopo, raggiungemmo uno dei fervedouros. La fonte era bellissima, circondata da piante di banano e l’effetto sollevamento, creato dalla risalita da fondo di un flusso di acqua, era divertentissimo.
Nei giorni successivi le giornate passarono felici. Andammo alla Cachoeira da Formiga e in quella Da Velha, ma nell’area delle dune, formate dalla chapada dello Espirito Santo, il paesaggio divenne magico. Le alte e rosse dune erano circondate da un complesso paesaggistico strepitoso, formato da cerrado, fiumi e paludi. Il colore delle dune si accese con la luce del tardo pomeriggio. La forza della terra e del cielo calamitava in una possessione che ci spingeva a rimanere sdraiati sulla sabbia o a camminare senza voglia di fermarci. È stato difficile lasciare quel posto, ma anche Jalapão. Nei giorni successivi, non riuscivamo a tornare. Non avevamo la forza di farlo. Perché tornare. I viandanti che vedevamo solitari camminare lungo le strade nel viaggio, c’ispirarono e ricordai il compleanno del caro Paolo a Belém do Pará.
— Benissimo! Venite e arrivate prima di sabato, così andremo a festeggiare anche il tuo compleanno a Marajò — mi rispose contento Paolo al cellulare. Il giorno dopo eravamo di nuovo sulla strada, Zezeh, io e Bolinha, felici di continuare il viaggio anche in noi stessi.