La nave Andrea Doria, affondata nel luglio del 1956, trasportava 900 emigranti italiani diretti negli USA e diverse celebrità: i soccorsi rapidi ed efficienti permisero di limitare il numero delle vittime
Il transatlantico Andrea Doria, naufragato esattamente 60 anni fa, è passato alla storia come il Titanic italiano. Per fortuna la perdita di vite umane fu molto più contenuta, ma la tragedia ebbe comunque un forte impatto sull’opinione pubblica nazionale ed estera. Come nel caso del Titanic, anche la nave italiana trasportava centinaia di emigranti alla ricerca di un futuro migliore negli Stati Uniti: per l’esattezza 900 cittadini italiani, desiderosi di intraprendere una nuova vita oltreoceano. Insieme a loro, il 17 luglio del 1956 salparono dal porto di Genova 160 turisti americani di ritorno da una vacanza in Europa, tra i quali le attrici americane Betsy Drake e Ruth Roman, e il sindaco di Philadelphia Richardson Dilworth. In tutto 1.134 passeggeri e 572 membri dell’equipaggio.
L’Andrea Doria, lasciatasi alle spalle il porto ligure, si appresta a seguire la cosiddetta “Rotta del Sole”, che passa per Cannes e Gibilterra, prima di approdare a New York. È la centounesima crociera di questo straordinario transatlantico, esemplare di punta della compagnia “Italia di Navigazione”. Una nave passeggeri che è considerata la più bella e sicura dell’intera flotta italiana e che non a caso è soprannominata la “Grande Dama del Mare”. È, infatti, un’enorme pinacoteca galleggiante, ricca di dipinti, arazzi, statue, ceramiche e altre meraviglie. Le opere e i decori, che animano le cabine e le sale, sono costati complessivamente circa un milione di dollari. Inoltre l’Andrea Doria è dotata di tre piscine, quattro cinema e campi da tennis, pallacanestro, tiro al piattello e tiro al bersaglio. Naturalmente le comodità e i lussi sono riservati quasi esclusivamente ai passeggeri che occupano le 218 cabine di Prima Classe. Le 320 persone che viaggiano in Seconda Classe e soprattutto i 703 emigranti che si trovano in Terza Classe, devono accontentarsi di molto meno. La crociera prosegue per otto giorni senza particolari problemi. A mezzogiorno del 25 luglio, però, dal porto di New York salpa la MN Stockholm, una rompighiaccio svedese diretta a Göteborg, che trasporta 534 passeggeri e un ampio carico merci.
Nel pomeriggio lungo il corridoio marittimo di Nantucket, un’isola degli Stati Uniti che si trova 48 chilometri a Sud di Capo Cod, cala una fitta nebbia. L’Andrea Doria raggiunge questo tratto di mare verso sera. La calma è assoluta e non si registrano intoppi fino a quando il radar del transatlantico italiano segnala la presenza di una nave ad una distanza di 16 miglia: il comandante Piero Calamai sale allora in plancia insieme al suo secondo Guido Badano e, a scopo puramente precauzionale, dà l’ordine di chiudere le paratie stagne e di attivare gli allarmi sonori. La coltre di nebbia non consente di scorgere alcunché ad occhio nudo, ma il radar continua a segnalare la nave svedese in avvicinamento, a soli 4 gradi a dritta dell’Andrea Doria. In questo preciso istante il comandante italiano assume la piena consapevolezza che le due navi rischiano di sfiorarsi nel volgere di poche decine di minuti. In quegli stessi istanti alla guida della MN Stockholm c’è il giovane ed inesperto terzo ufficiale Johan Ernst Carstens-Johannsen, di appena 26 anni, che opta per un’accostata a dritta. È come se non visualizzasse correttamente la posizione del transatlantico — pensa infatti che il radar della Stockholm stia funzionando sulla portata delle 15 miglia, mentre in realtà è attivo su un raggio delle 5 miglia. Un errore di valutazione che lo induce a calcolare male la distanza che lo separa dalla nave italiana: la valuta infatti a 6 miglia, quando invece il transatlantico è ormai giunto ad una distanza di sole 2 miglia.
Lo schianto in mare
Sono circa le 23 e a bordo dell’Andrea Doria il comandante è incredulo e furibondo. Calamai esce sull’ala destra della plancia nel tentativo di avvistare la nave e ordina un’accostata a sinistra. Alle 23:18, Carstens-Johannsen scorge il fianco destro del transatlantico italiano e in un estremo tentativo di evitare il contatto ordina un’indietro tutta. Ma ormai è troppo tardi. La prua della Stockholm, particolarmente resistente per via della corazza pensata per i ghiacci artici, squarcia il fianco del transatlantico italiano per quasi tutta la sua lunghezza, uccidendo numerosi passeggeri che si erano già ritirati a dormire nelle proprie cabine. Vengono imbarcate circa 500 tonnellate di acqua, che non potendo essere bilanciate nell’immediato, producono il pauroso sbandamento a dritta della nave per oltre 15 gradi. Nel momento in cui avviene la collisione, a bordo del transatlantico si festeggia l’ultima notte in mare, con un party al quale prendono parte attrici, industriali, uomini d’affari e personalità della finanza. Un boato tremendo, urla e pianti, e subito dopo la nave inizia ad inclinarsi. Calamai sceglie di non dare il segnale di abbandono della nave per non generare panico incontrollato. “Lei si salverà, dica alle mie figlie che ho fatto tutto quanto era possibile” — racconterà in seguito il secondo ufficiale Guido Badano, riferendo le parole pronunciate dal comandante in quei drammatici momenti. “Fu ciò che mi disse Calamai quando fu chiaro che la nave era perduta, era un ufficiale brillante e ha fatto tutto ciò che andava fatto”. Il commissario governativo però non è d’accordo con Calamai e pretende che il comandante dia il segnale di abbandono della nave. Calamai si oppone, obiettando che non ci sono abbastanza lance per tutti i passeggeri e che quindi occorre attendere i soccorsi.
Le operazioni di soccorso
L’allarme radio viene lanciato immediatamente: “Siamo in condizioni di estremo pericolo. Alle 2 del mattino le operazioni di soccorso dall’Andrea Doria entrano nel vivo: i primi ad essere tratti in salvo sono donne e bambini. La nebbia nel frattempo si è diradata, permettendo agli elicotteri della guardia costiera di raccogliere i feriti con barelle speciali e di trasportarli all’ospedale di Nantucket o, nei casi più gravi, all’ospedale navale di Boston. Alle 3, i passeggeri dell’Andrea Doria sono in salvo, distribuiti sulla Stockholm e sulle altre tre navi presenti sul posto. Inizia allora l’attività di recupero dell’equipaggio italiano. Appare ormai chiaro, però, che sarà impossibile salvare la nave: l’Andrea Doria continua ad inclinarsi sempre di più, minuto dopo minuto. Calamai si rifiuta di lasciare la nave, ma due ufficiali anziani tornano a bordo e lo obbligano a mettersi in salvo.
Il bilancio: 51 morti e nessun responsabile
Alle 10:09 del 26 luglio, 11 ore dopo l’impatto, l’Andrea Doria affonda sotto 74 metri di acqua. L’ultimo pezzo visibile, prima di inabissarsi, è l’elica. Inizia la triste conta dei morti e dei dispersi: pochi minuti dopo che il transatlantico è affondato, sono 8 i morti accertati e 90 le persone che mancano all’appello. Il bilancio finale dell’incidente, nei giorni successivi, sarà di 46 morti tra i passeggeri dell’Andrea Doria e di 5 morti tra quelli della Stockholm. Le cose sarebbero potute andare molto peggio, ma la rapidità e l’efficienza delle operazioni di soccorso scongiurarono l’aggravarsi della situazione. La vicenda ebbe una straordinaria copertura mediatica in tutto il mondo e i giornali dell’epoca parlarono della più grande operazione di soccorso della storia marittima.
Tra le vittime, anche diversi emigranti italiani. Emblematica la storia di Domenico Palmeri e della figlioletta Francesca, di appena tre anni, che avevano lasciato Ribera, un piccolo comune siciliano, per raggiungere New York, dove si era formata una folta comunità proveniente dallo stesso paesino. Entrambi furono uccisi nello schianto, mentre si trovavano nella cabina di Terza Classe. Si trattò di una tragica beffa del destino, in quanto l’uomo scelse di prendere la cabina soltanto perchè la figlia aveva la febbre alta. In caso contrario si sarebbero salvati entrambi. Il viaggio compiuto nel luglio del 1956 fu l’ultimo per l’Andrea Doria, il cui relitto non venne mai più recuperato. La nave era assicurata per 20 milioni di dollari, ma per ricostruirla ne sarebbero serviti molti di più, senza contare che la società armatrice dovette rifondere i familiari delle vittime e le ditte che nel naufragio persero 1.200 tonnellate di merci. Nonostante le indagini, le battaglie legali e il processo, non è mai stato possibile attribuire con certezza le responsabilità dell’incidente.