La crisi politico-istituzionale e l’emergenza umanitaria sembrano giunte ad un punto di non-ritorno
Il Venezuela chiede aiuto. Negli ultimi dieci anni ho avuto modo di visitare il Paese sudamericano diverse volte, assistendo ad una progressiva e apparentemente irreversibile spirale caratterizzata da una crescente violenza urbana, da una crisi di carattere politico-istituzionale e — infine — dal collasso economico con una conseguente emergenza umanitaria.
Tra la mia ultima visita di qualche settimana fa a Caracas e la prima di dieci anni fa il Venezuela è cambiato, sicuramente in peggio. Nel 2006 Chavez era saldamente al potere e, sia pure fossero chiari già allora tutti i sintomi della deriva populista e autoritaria che avrebbe preso piede negli anni a venire (raggiungendo l’apice con il suo successore Maduro), era ancora possibile distinguere tra gli eccessi e i limiti del suo governo e i meriti oggettivi dello stesso ‘regime’, soprattutto in relazione alla lotta all’esclusione sociale della grande massa di popolazione. La povertà e l’emarginazione sociale del popolo delle grandi periferie e dell’interno del Paese erano state infatti in gran parte la conseguenza diretta di anni di governi corrotti dominati da una delle elite più egoiste e conservatrici che l’America Latina abbia mai conosciuto.
“Chavez e il chavismo — mi dicevano gli amici italiani del Venezuela — sono il frutto di questa cattiva politica e dell’assenza di una visione inclusiva e veramente democratica di coloro che avevano governato prima di lui”.
I primi anni del governo di Chavez, quindi, sembravano davvero quelli di una “rivoluzione socialista e bolivariana”, anni di rottura cioè con il passato corrotto e ingiusto e, sia pur con forzature e contraddizioni, all’insegna della partecipazione popolare e dell’impegno per la riduzione delle disuguaglianze sociali. Alcuni fattori di ordine internazionale, come la caduta del prezzo del petrolio e il disgelo Cuba-Stati Uniti, hanno poi contribuito all’aggravarsi della crisi economica da un lato e all’indebolimento internazionale del Venezuela; questi elementi, sommati all’incapacità politica e alla mancanza di carisma di Nicolas Maduro, hanno dato inizio ad una fortissima crisi del ‘modello venezuelano’. La conseguenza è stata da una parte l’irrigidimento delle posizioni del governo nel rapporto con l’opposizione (con la relativa repressione e, in alcuni casi, tortura perpetrata ai danni dei leader di quest’ultima) e dall’altra la pesantissima sconfitta del dicembre dello scorso anno, quando la MUD (la coalizione dei partiti che si oppongono al governo) ottenne una netta vittoria alle elezioni per il rinnovo del Parlamento.
Da allora il governo Maduro ha provato in tutti modi a delegittimare il Parlamento eletto e ha continuato ad arrestare dissidenti, in una situazione di crisi economica crescente e di vera e propria ‘emergenza umanitaria’ caratterizzata dalla scarsezza di beni di prima necessità e di medicinali.
Il tentativo di ricorrere al “referendum revocatorio” (una formula prevista dalla Costituzione e voluta da Chavez in prima persona) rappresentava forse l’ultima “chance democratica” per evitare che la deriva autoritaria e populista del governo continuasse a correre senza freni e in quella spirale citata all’inizio di questo articolo.
Prevedibilmente Maduro ha sospeso e dichiarato nulla la procedura di raccolta delle firme per il referendum, obbligando così l’opposizione a ricorrere alla “calle”, la strada – l’unica via d’uscita per la protesta pacifica e democratica. Parallelamente il Parlamento ha iniziato un processo di messa in stato di accusa del Presidente, anch’esso destinato a sbattere contro l’invalicabile muro degli apparati di giustizia dominati dal Presidente e dal suo governo.
Anche il Papa ha fatto un personale e disperato tentativo di convincere Maduro ad assumere un atteggiamento diverso rispetto alla pura e semplice negazione dei poteri democratici rappresentati dal Parlamento e alla crescente insoddisfazione popolare. Tentativo al momento privo di esiti positivi. Il Venezuela, intanto, continua a inviarci il suo “SOS” quotidiano. Sarebbe cinico e ingiusto non dargli il dovuto ascolto; la comunità internazionale non può rimanere inerte.