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Home > Psicologia della generazione perduta i giovani dall’età indefinita

Psicologia della generazione perduta i giovani dall’età indefinita

20 de julho de 2010 - Por Comunità Italiana

Sempre più acute le difficoltà di consolidamento dei progetti personali e professionali dei giovani. Solo la metà possiede caratteristiche di personalità per i compiti di sviluppo. Più forti quelli che lasciano la città di origine. I risultati nell'anticipazione dell'indagine dell'università di Napoli sulle storie raccolte dalla nostra testata

{mosimage}NON sono più giovani. E neppure adulti. I protagonisti della "generazione perduta" anche se passano attraverso la tempesta di diverse esperienze, spesso caratterizzate dal disagio, non riescono con il tempo a trasformare se stessi in qualcosa che li porti oltre le possibilità inespresse e li faccia uscire dall'ombra di un'identità indefinita. Per colpa del lavoro che non c'è, di una società sempre più "instabile" che gli sottrae opportunità, ma anche per caratteristiche proprie. E per la responsabilità di chi non gli offre gli strumenti di supporto che sembrano sempre più necessari. E' questo uno dei risultati emersi dall'indagine realizzata dal dipartimento di scienze relazionali "G. Iacono" dell'università di Napoli "Federico II". A confessarlo, in qualche modo, sono stati proprio loro. Sì, perché per scavare nelle profondità del disagio di un arcipelago di generazioni, la professoressa Laura Aleni Sestito, docente di psicologia dello sviluppo e coordinatrice della ricerca condotta insieme a Luigia Sica e Maria Nasti, ha analizzato le testimonianze raccolte dalla nostra testata a novembre del 2009.  

NON sono più giovani. E neppure adulti. I protagonisti della "generazione perduta" anche se passano attraverso la tempesta di diverse esperienze, spesso caratterizzate dal disagio, non riescono con il tempo a trasformare se stessi in qualcosa che li porti oltre le possibilità inespresse e li faccia uscire dall'ombra di un'identità indefinita. Per colpa del lavoro che non c'è, di una società sempre più "instabile" che gli sottrae opportunità, ma anche per caratteristiche proprie. E per la responsabilità di chi non gli offre gli strumenti di supporto che sembrano sempre più necessari. E' questo uno dei risultati emersi dall'indagine realizzata dal dipartimento di scienze relazionali "G. Iacono" dell'università di Napoli "Federico II". A confessarlo, in qualche modo, sono stati proprio loro. Sì, perché per scavare nelle profondità del disagio di un arcipelago di generazioni, la professoressa Laura Aleni Sestito, docente di psicologia dello sviluppo e coordinatrice della ricerca condotta insieme a Luigia Sica e Maria Nasti, ha analizzato le testimonianze raccolte dalla nostra testata a novembre del 2009. 

I compiti mancati dello sviluppo. Dall'analisi che qui anticipiamo emerge che solo metà dei giovani, coinvolti nella ricerca, mostra di possedere quelle caratteristiche di personalità utili a fronteggiare i compiti di sviluppo. I giovani, seppure chiamati a operare in un contesto molto complesso, o forse proprio per questo, solo in piccola parte mostrano di "muoversi a partire da spinte profonde, di avere capacità di controllo sulla realtà interna ed esterna e di percepire se stessi come protagonisti rispetto all'esperienze di adattamento alla realtà lavorativa".

Tra realtà e aspirazioni. Le ricercatrici dell'università di Napoli hanno cercato di fornire una chiave di lettura complementare a quelle in ambito sociologico, antropologico e socio-economico. Al centro, la convinzione che l'identità sia un processo dinamico, una continua negoziazione tra realtà e aspirazioni. Contingenze e progettualità. A prevalere però, nella generazione "senza lavoro", è una frapposizione di entità non integrate. "L'identità personale e l'identità professionale, spiega Sestito, sembrano non potersi integrare l'una con l'altra anche in soggetti di un'età in cui questo deve accadere. Si persegue una senza riuscire a perseguire l'altra. Indipendentemente dal tipo di attività". Paradossalmente è valido anche per chi ha un contratto a tempo indeterminato. Nel loro caso, per una buona parte, il processo di definizione dell'identità, è compiuto sulla base di fattori esterni, di timori e preoccupazioni, più che speranze e aspirazioni personali.

Quelli che ce la fanno
. "Risultano essere maggiormente risolti – racconta Sestito, da anni attenta studiosa della transizione all'età adulta – quelli che sono riusciti ad andare fuori dalla propria città. Anche se poi, denunciano pure loro disagio e stress. Ma con differenze cruciali: ripercorrendo la propria storia hanno mostrato maggiore progettualità a lungo termine e, al momento delle scelte, hanno avuto fiducia nella possibilità di influire sugli eventi. Sono stati capaci di tracciare una traiettoria e di percorrerla nonostante le difficoltà" .

La ricerca del senso. La specificità di un'indagine di questo tipo sta proprio nella decisione di analizzare le storie. "Attraverso le narrazioni – spiega la coordinatrice – attingiamo a quello che è un vissuto non cristallizzato, così come emerge mentre il soggetto lo sta ricostruendo per l'interlocutore". Il racconto svela qualcosa che altrimenti sarebbe inaccessibile anche all'autore, perché si costruisce nel momento in cui viene creato, stimolato dall'esigenza del doverlo raccontare. Ed è anche un modo di agganciarsi a una collettività e a un contesto.

La complessità e le responsabilità. La sensazione è che oggi, alle prese con una società più "instabile", ci sia bisogno di un "capitale di identità" maggiore di quanto ne fosse necessario in passato. "Oggi è più difficile diventare adulti. Il fatto di avere più chance – dice Sestito – rende tutto ancora più complicato. Dopo avere individuato una scelta, ci si deve assumere le responsabilità, in senso psicologico, dell'identificarsi con le cose che si sono scelte e di assumersele come personale traiettoria di sviluppo. Quanto più la società diventa complessa, tanto più è difficile assolvere a questi compiti".

Le scelte senza indagare se stessi. Molti nodi finiscono per venire al pettine al momento delle scelte da compiere dopo avere terminato le superiori. "Molto spesso all'università – osserva Luigia Sica – arrivano ragazzi che non hanno una percezione realistica delle aree in cui possono essere bravi. Al momento delle scelte su cosa fare, sembra quasi che si pongano il quesito 'ora quale facoltà faccio?' invece di 'cosa voglio fare e cosa sono adatto a fare?' e questo crea delle aspettative che quasi sempre vengono disilluse. Si sceglie quello che è più attraente e non il più adatto". Ma forse c'è anche qualcosa di più profondo. "L'indagine sui sé possibili, l'esplorazione delle possibilità future, si è un po' affievolita. Forse il futuro a cui si pensa è più breve. Si sceglie cosa fare l'anno prossimo e non si va oltre".

Le soluzioni possibili. Quali sono allora, in questo ambito, le strade da percorrere per non lasciare che molti giovani siano costretti ad arenarsi in un limbo identitario? Le autrici dell'indagine indicano alcuni strumenti. "I giovani dovrebbero essere aiutati prima a capire le proprie capacità e limiti. E' necessario – suggerisce la Sestito – puntare su un orientamento formativo di accompagnamento negli ultimi due anni della scuola superiore e nei primi due anni dell'università. Ma non l'orientamento di tipo informativo che si fa spesso e rischia di essere disorientante. Pensiamo piuttosto a un training complesso che preveda il riconoscimento di quelle che sono le proprie risorse e i propri vincoli e favorire nei giovani lo sviluppo della capacità di porsi obiettivi realistici appena al di sopra delle proprie possibilità".

Fonte: www.repubblica.it

 

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A revista ComunitàItaliana é a mídia nascida em março de 1994 como ligação entre Itália e Brasil.