Ci si era illusi che almeno il calcio potesse sottrarsi all'andamento generale dell'Italia. Spesso cedendo all’emotività e di conseguenza all’irrazionalità, attaccati ai colori e conquistati da certe giocate sul campo, si è continuato a sperare che le cose non precipitassero. I maneggi contabili dei club, poi, con la loro capacità di scamparla in barba al fisco che invece risulta implacabile in ogni altro ambito economico del paese, avevano dato ancora più (false) speranze. Ora invece – e praticamente d’un botto – dobbiamo fare i conti con la dura realtà, di cui fa parte una fuga di talenti che da un lato mette a nudo l'inconsistenza delle posizioni a lungo mantenute da tante società e dall'altro, quello puramente sportivo, rappresenta un immeritato sberleffo al nostro calcio inteso come sport, che continua a essere un tesoro.
Il recente naufragio del movimento pallonaro italiano, concretizzatosi in un progressivo e inesorabile affondamento, trova i suoi indicatori maggiori nelle cessioni di campioni che un tempo avrebbero voluto restare e non si sarebbe mai pensato di liquidare. Sì, perché in fondo l’impoverimento del nostro calcio deriva da un concorso di colpe: giocatori che vogliono guadagnare (ma anche vincere) sempre di più e società che possono pagare (e prospettare successi) sempre meno. Alle vendite di Eto'o, Pastore, Lavezzi, Ibrahimovic e Thiago Silva e alla rinuncia a giovani talenti nostrani come Balotelli, Borini, Verratti e Giuseppe Rossi, vanno sommate acquisizioni minime e sempre faticose. Senza dimenticare i nostri allenatori, con tutti quelli emigrati che si sono dimostrati ancora vincenti e paradossalmente hanno già fatto o comunque stanno facendo la fortuna di club stranieri e altre nazionali: Ancelotti, Mancini e Spalletti su tutti, ma anche Capello, Trapattoni e ora Lippi. E’ tutta gente che bada certamente ai soldi ma crede anche solo in progetti reali: tutto quel che in Italia praticamente non c’è più.
Il quadro generale che se ne ricava è dunque sconfortante su tutta la linea, sia guardando al presente che al futuro – almeno quello immediato. Nemmeno dal governo del calcio arrivano segnali incoraggianti. E’ come se senza più soldi non si potessero dare garanzie ai campioni stranieri, a cui fino a poco tempo fa veniva l’acquolina in bocca alla sola idea di giocare in Serie A. Ed è anche chiaro che non si sa come far fruttare il patrimonio tecnico costituito dai nostri giovani, che ancora esiste e che per una volta (fosse anche solo per necessità, abbandonati e snobbati un po’ da tutti) dovrebbe essere esaltato.
D’altro canto potrebbe consolarci la consapevolezza che il calcio italiano ha i mezzi per resistere all’emorragia di talenti che è in corso. Ci resta poi l’orgoglio di una tradizione che va giusto ravvivata anche se non potremo più gioire per le affermazioni sul campo dei nostri ragazzi più o meno cresciuti né di quelli che da noi e grazie a noi si sono consacrati. Sappiamo inoltre che la crisi non ha investito solo l'Italia: non è un caso che anche in Inghilterra e Francia, paesi che al momento (apparentemente) sono meno toccati dal cataclisma finanziario, si investa quasi solo in poche isole felici di proprietà di sceicchi. Peggio di tanti altri, quindi, non stiamo e soprattutto non siamo in assoluto. Come gli altri però siamo stati travolti da un sistema trasversale a molti ambiti, compreso quindi quello calcistico. Un sistema che nel caso specifico del pallone non ha radici nello sport nemmeno lontanamente, è dispendioso per tutti e al tempo stesso remunerativo per pochi, e col tempo ha collassato trascinando a fondo praticamente chiunque vi fosse collegato. Risultato: i soldi non girano più e sapere di non essere i soli a risultare penalizzati non ci può confortare nel momento in cui il colpo siamo innanzitutto noi ad accusarlo.
Dobbiamo essere ottimisti, però. Più passa il tempo e più cose accadono, infatti, più risulta evidente che anche nel calcio la soluzione non può venire solo dal denaro. Comunque abbiano agito i nostri dirigenti, avidi o meno che si dimostrino giocatori e procuratori e in considerazione anche dell’altalenanante e fisiologico andamento dell’economia, la prima contromisura da prendere è infatti a portata di mano. Vanno valorizzati i nostri giovani: con la storia calcistica e le capacità tecniche che abbiamo, seconde a quelle di nessuno, dando loro il giusto spazio non è detto che cedano alle lusinghe straniere. Tornando a forgiare e sfoggiare gioielli fatti in casa non dovremo più dipendere da quelli altrui, compresi i sudamericani che oltretutto al momento sono diventati pure troppo cari. Sì, perché la ruota gira anche nel calcio e il nuovo ‘sud del mondo’ è qui. Ma non è un dramma: basta sapersi adattare e dare il meglio.