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Il caso Moro

16 de março de 2016 - Por Comunità Italiana
Il caso Moro

Il caso MoroUna vicenda che ha cambiato la storia d’Italia e sulla quale si continua ad indagare, nel 2014 è stata aperta una nuova Commissione Parlamentare d’inchiesta guidata da Giuseppe Fioroni

Il 16 marzo del 1978 non è un giorno come gli altri. E’ una di quelle date che restano indelebili nella memoria collettiva di una nazione, perchè destinate a cambiare il corso della storia. Aldo Moro è il presidente della Democrazia Cristiana ed il principale teorico del compromesso storico che ha come obiettivo l’avvicinamento e il coinvolgimento del Partito Comunista nella maggioranza di governo. In mattinata, a Roma, è in programma il voto di fiducia per dare vita al governo di solidarietà nazionale presieduto da Giulio Andreotti e il PCI, per la prima volta, si è impegnato a votare a favore della nascita di un esecutivo a guida democristiana, pur rifiutando di ricoprire incarichi di governo. E’ una tappa fondamentale nell’ambito del nuovo corso politico avviato da Moro, che non piace ai movimenti della sinistra extraparlamentare e ancora meno alle Brigate Rosse, l’organizzazione comunista armata che si è già resa protagonista di numerosi omicidi e ferimenti. Intorno alle 8.30, il presidente della DC esce dalla propria abitazione romana per recarsi in parlamento. Non ci arriverà mai.
Sono le 9.02 quando, in via Fani all’incrocio con Via Stresa — nel quartiere Trionfale a Roma — una Fiat 128 frena improvvisamente causando un tamponamento a catena. La Fiat 130 con a bordo Aldo Moro e due agenti della sicurezza resta intrappolata tra la vettura che ha provocato l’incidente, guidata dal brigatista Mario Moretti e l’Alfa Romeo sulla quale viaggiano altri tre uomini della scorta. I terroristi aprono il fuoco, mentre la Br Barbara Balzerani, armata di un mitra e di una paletta per far defluire il traffico, controlla l’incrocio. Valerio Morucci e Raffele Fiora, collocati sul lato sinistro della vettura di Moro, uccidono a colpi di mitra il maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi e l’appuntato Domenico Ricci. Prospero Gallinari e Franco Bonisoli fanno fuoco contro l’Alfetta, assassinando il brigadiere Francesco Zizzi e gli agenti Raffaele Jozzino e Giuliano Rivera. Moro viene caricato su una Fiat 132 guidata da Bruno Seghetti. L’azione è fulminea e alle 9.15 la notizia è già di dominio pubblico.
“Interrompiamo le trasmissioni radiofoniche per una drammatica notizia, che ha dell’incredibile e che anche se non ha trovato finora conferma ufficiale, purtroppo sembra sia vera”, dice il giornalista Cesare Pelandri, con la voce rotta dall’emozione, nell’edizione straordinaria del Gr2. “Il Presidente della Democrazia Cristiana, onorevole Aldo Moro, è stato rapito poco fa a Roma da un commando di terroristi”. E’ l’apice della strategia brigatista dell’ “attacco al cuore dello Stato”. Passano pochi minuti e, dopo una serie di manovre e cambi d’auto, Moro viene trasportato nel quartiere romano della Magliana e rinchiuso in una prigione ricavata all’interno di un appartamento situato al numero di 8 di via Montalcini, dove resterà per 55 lunghi giorni. I suoi carcerieri sono Germano Maccari, Laura Braghetti e Prospero Gallinari, con Mario Moretti che si reca spesso nell’appartamento per interrogare il prigioniero.

Il sequestro e la richesta di liberazione dal Papa Paolo VI, amico personale di Moro
Il 19 marzo viene pubblicata su tutti i giornali la foto di Moro, seduto su una brandina, davanti ad uno stendardo con il simbolo a cinque punte e la scritta Brigate Rosse. Insieme allo scatto fotografico i brigatisti diffondono anche il comunicato numero 1, nel quale annunciano che il presidente della DC sarà sottoposto ad un processo da parte di un sedicente tribunale del popolo. Nei giorni successivi vengono diramati altri comunicati. Drammatico il numero 6, datato 15 aprile 1978: “Gli interrogatori sono stati conclusi e il processo è terminato con una sentenza di condanna a morte”. Un nuovo comunicato, però, apre le porte ad un negoziato: “Il rilascio del prigioniero Aldo Moro può essere preso in considerazione solo in relazione alla liberazione di prigionieri comunisti”. Pochi giorni dopo, i brigatisti diffondono un elenco con i nomi dei 13 terroristi che devono essere liberati. A Moro viene concessa la possibilità di scrivere diverse lettere, che vengono indirizzate ai suoi familiari e ai colleghi di partito, nel tentativo di individuare un percorso che possa portare al suo rilascio.
Il mondo politico si divide in due fazioni: da una parte il fronte della fermezza, formato da DC, PSDI, PLI, PRI e, con particolare intransigenza da PCI e MSI, che rifiutano qualsiasi ipotesi di trattativa; dall’altra il fronte possibilista, composto da PSI, Radicali, sinistra progressista e cattolici progressisti, insieme a diversi esponenti del mondo della cultura. Secondo i primi, la scarcerazione di alcuni brigatisti costituirebbe una resa da parte dello Stato e creerebbe un pericoloso precedente.
La famiglia di Moro chiede di trattare e anche il presidente della DC, in una lettera del 29 aprile indirizzata al suo partito, scrive: “Lo scambio è la sola via d’uscita”. Per chiedere la liberazione dell’ostaggio si mobilita Papa Paolo VI, amico personale del politico sequestrato. Il pontefice, attraverso la Radio Vaticana, diffonde un appello “agli uomini delle Brigate Rosse”, invocando una liberazione “senza condizioni”. Di fatto è un allineamento alla linea della fermezza, che la famiglia Moro vive come un tradimento. Chiedono il rilascio del dirigente democristiano anche l’ONU, Amnesty International e gli esponenti di organizzazioni politiche e umanitarie di tutto il mondo. Prevale, però, il fronte della fermezza, anche se il segretario socialista Bettino Craxi compie un estremo tentativo, chiedendo ai suoi collaboratori di individuare i nomi di qualche brigatista che possa essere rilasciato al di fuori dell’elenco diffuso dai sequestratori: si pensa a Paola Besuschio e Massimo De Carolis, che sono malati e non hanno riportato condanne per omicidio. L’ipotesi di scambio, però, muore sul nascere.

L’esecuzione a colpi di pistola e le dimissioni del ministro dell’Interno
Si susseguono giorni frenetici, fatti di riunioni incandescenti, disperati tentativi di mediazione, ricerche ininterrotte, depistaggi misteriosi e appelli accorati. Poi, il 5 maggio, Andreotti ribadisce che lo Stato non intende trattare. Poche ore e arriva il comunicato numero 9 delle Brigate Rosse. “Per quanto riguarda la nostra proposta di uno scambio di prigionieri politici perché venisse sospesa la condanna e Aldo Moro venisse rilasciato, dobbiamo soltanto registrare il chiaro rifiuto della DC” — è scritto nel messaggio. “Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato”.
La mattina del 9 maggio Moro viene fatto alzare alle 6 del mattino. Non è chiaro se gli viene detto che sarà trasferito in un altro covo o che sarà liberato. Viene infilato in una cesta di vimini e portato nel garage del covo di via Montalcini; viene fatto entrare nel portabagagli di una Renault 4 rossa e coperto con un lenzuolo dello stesso colore. Mario Moretti spara alcuni colpi di pistola e poi una raffica di mitra che perfora i polmoni di Moro. Il presidente della DC è morto. In piedi, a fianco a Moretti, c’è Germano Maccari. I due salgono a bordo dell’auto che contiene il cadavere di Moro e la parcheggiano in via Caetani, un luogo altamente simbolico perchè a metà strada tra la sede della DC e quella del PCI.
Intorno alle 12.30, il brigatista Valerio Morucci raggiunge telefonicamente il professor Francesco Tritto, uno degli assistenti di Moro, qualificandosi inizialmente come il dottor Nicolai. La conversazione assume toni drammatici; Tritto è sotto shock. “Adempiamo alle ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro. E’ in via Caetani, che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure… Lì c’è una Renault 4 rossa… I primi numeri di targa sono N5”. Poche ore dopo il rinvenimento del cadavere, il ministro dell’Interno Francesco Cossiga si dimette. I familiari di Moro, intorno alle 17.30, diramano un lapidario comunicato: “La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità di Stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso; nessun lutto nazionale né funerali di Stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”.

Diversi pezzi di verità sono ancora mancanti
E la storia, ancora oggi, presenta diversi interrogativi, che passano per le ipotesi di coinvolgimento di esponenti dei servizi segreti, della struttura clandestina paramilitare denominata Gladio e della loggia massonica P2. Troppo numerose, infatti, le coincidenze e le incongruenze, le ombre e i misteri, le soffiate e i depistaggi, per pensare che sia stata fatta piena luce sul caso. Uno dei punti chiave è la scomparsa di alcuni dei memoriali scritti da Moro durante la prigionia. Nel 2014, dopo cinque processi e due Commissioni d’Inchiesta, è stata aperta una nuova Commissione d’Inchiesta Parlamentare sul caso Moro, che sta indagando in particolare sull’ipotesi di una trattativa occulta. E’ la conferma che diversi pezzi di verità sono ancora mancanti.
Secondo molti osservatori, l’obiettivo dei terroristi sarebbe stato quello di punire l’artefice dall’avvicinamento tra DC e PCI, mentre la tesi dei brigatisti è che lo scopo fosse molto più banale, ovvero colpire frontalmente la DC, considerata dalle BR il cardine italiano di un presunto Stato Imperialista delle Multinazionali (SIM). Moro, in ogni caso, nell’analisi ideologica e allucinata dei brigatisti era uno dei simboli di quel sistema, ma non il solo: saranno gli stessi brigatisti, negli anni successivi, a rivelare che inizialmente avevano progettato di sequestrare il presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Dopo avere a lungo pedinato l’obiettivo, sarebbero stati costretti a cambiare programma a causa dell’elevato livello di protezione di cui godeva il premier democristiano. Di fatto la principale conseguenza politica della morte di Moro fu la fine della fase del compromesso storico e dell’avvicinamento tra DC e PCI.
Il cambio di prospettiva sicuramente non dispiacque ai partner internazionali dell’Italia che, ancora incardinati nelle logiche della guerra fredda USA-URSS, disapprovavano qualsiasi ipotesi di collaborazione tra i fidati alleati democristiani e i nemici comunisti. Negli anni precedenti alla sua uccisione, lo stesso Moro aveva cercato di fornire rassicurazioni a Stati Uniti e Gran Bretagna circa la fedeltà dell’Italia all’Alleanza Atlantica, anche nel caso di un eventuale ingresso del PCI nella formazione del governo, ma le potenze mondiali, riunitesi nel G7 del 1976 avevano lasciato intendere che, di fronte ad un simile scenario, l’Italia avrebbe dovuto rinunciare agli aiuti internazionali. Anche per questo e alla luce del ruolo giocato nei giorni del sequestro sia da alcuni uomini dei servizi segreti statunitensi che da quelli dei servizi segreti italiani, sono stati adombrati diversi sospetti sull’operato delle varie intelligence.

Le condanne di diversi brigatisti
L’uccisione di Moro fu vissuta nel Paese come una tragedia collettiva, che segnò a fondo le coscienze degli italiani. Le BR al loro interno si spaccarono ed alcuni esponenti di spicco dell’organizzazione, come Valerio Morucci e Adriana Faranda, che si erano pronunciati contro l’esecuzione di Moro, nei giorni che precedettero la sua uccisione, decisero di lasciare l’organizzazione. Iniziarono ad incrinarsi anche i rapporti con i movimenti della sinistra extraparlamentare e nelle fabbriche, gradualmente, i brigatisti cessarono di essere visti come “i compagni che sbagliano” e presero ad essere considerati come dei terroristi. L’attività repressiva dello Stato, inoltre, si mise in moto con durezza e determinazione e, già pochi mesi dopo il ritrovamento del cadavere di Moro, fioccarono i primi arresti, tra i quali quelli del tipografo Enrico Triaca e dei dissidenti Morucci e Faranda. Il 28 gennaio del 1983 la Corte d’Assise di Roma, al termine di un processo durato nove mesi, condannò i 63 imputati delle istruttorie Moro-uno e Moro-bis ad una pena complessiva di 32 ergastoli e 316 anni di carcere. Nel 1985, in appello, i giudici diedero maggiore valore alla dissociazione, cancellando 10 ergastoli e riducendo la pena ad alcuni imputati. Il giudizio fu sostanzialmente confermato pochi mesi dopo dalla Corte di Cassazione. Negli anni successivi si svolsero tre nuovi processi (Moro-ter, Moro-quater e Moro-quinquies) che si conclusero con le condanne di altri brigatisti coinvolti nella vicenda.  

Comunità Italiana

A revista ComunitàItaliana é a mídia nascida em março de 1994 como ligação entre Itália e Brasil.