Un paese frammentato e fuori controllo, in preda a traffici di ogni genere e all’interno del quale si va rafforzando il controllo dell’Isis, il sedicente Stato Islamico che ha dichiarato guerra all’Occidente e che soltanto pochi giorni fa ha compiuto una nuova strage a Bruxelles, nel cuore dell’Europa, mettendo a segno un duplice attentato che ha causato 32 morti e 250 feriti. E’ questo il quadro che si va delineando in Libia, a poche centinaia di chilometri dalle coste italiane. Una situazione allarmante e in continua evoluzione, che costringe l’Italia a mettersi in gioco. Il rebus appare particolarmente intricato. La Libia, dopo l’intervento militare a guida francese, che portò alla destituzione e all’uccisione di Gheddafi, non è mai riuscita a trovare forme di coesione sotto la guida di un’autorità comune.
Dopo la caduta di Gheddafi, non si è mai ricreato un vero apparato statale e ciò che resta dell’esercito libico non riesce ad ottenere il monopolio della forza. Il potere centrale è affidato ai gruppi armati legati a capi tribali e consigli cittadini, che tentano di controllare il territorio. Alcune di queste milizie hanno riconosciuto l’autorità del governo soltanto per opportunità economica o politica e dunque non mancano gli scontri violenti, per mettere le mani sui punti strategici del paese o per sottrarli ai gruppi rivali. Nel frattempo l’Isis sta guadagnando spazio e terreno.
La Libia, in sostanza, è una polveriera, che desta grande apprensione in Europa e soprattutto in Italia: preoccupa la vicinanza di potenziali terroristi senza scrupoli, che hanno già colpito duramente Madrid, Londra, Parigi e Bruxelles e che minacciano da tempo anche il Vaticano e il Belpaese; preoccupa il rischio di un esplosione dei flussi migratori, considerando che dalle coste della Libia Occidentale, negli ultimi quattro anni, sono partite 400 mila persone alla volta di Lampedusa e della Sicilia; preoccupano anche e soprattutto le implicazioni economiche, che appaiono di primaria importanza per l’Italia, considerando che l’Eni esercita una sorta di monopolio nell’estrazione del gas e del petrolio libico, che più del 16% delle fonti fossili importate dall’Italia arriva dalla Libia e che negli ultimi anni, con la guerra civile, giacimenti strategici per il nostro Paese sono al centro di una contesa tra le varie milizie. Per tutte queste ragioni l’Italia ha accettato di prendere parte alla coalizione formata da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, che punta ad arginare la minaccia dell’Isis in Libia e a stabilizzare il Paese.
Le basi di Sigonella e la morte dei due italiani
Alcuni eventi di rilievo, legati al ruolo che sta giocando l’Italia sullo scacchiere libico, si sono succeduti negli ultimi mesi. Lo scorso febbraio si è scoperto, soltanto grazie alle indiscrezioni rese pubbliche dal Wall Street Journal, che l’Italia già da un mese aveva concesso il via libera alla partenza di droni armati statunitensi, dalla base siciliana di Sigonella verso la Libia e altre aree del Nord Africa. Un punto di svolta sia rispetto a quanto stabilito nel 2011, ovvero che da Sigonella potessero partire solo voli di sorveglianza non armati, sia rispetto alla politica estera del governo Renzi che, anche dopo gli attacchi di Parigi, aveva mantenuto un profilo basso sulla questione mediorientale.
L’altro avvenimento, solo apparentemente scollegato dal primo, è la tragica uccisione, all’inizio del marzo scorso, di due dei quattro civili italiani rapiti in Libia otto mesi prima: Fausto Piano e Salvatore Failla lavoravano per una ditta che costruisce impianti petroliferi per conto dell’Eni. Sono stati uccisi nella zona di Sabrata, nel corso di uno scontro a fuoco che presenta molti punti oscuri e che apre numerosi interrogativi, anche rispetto all’affidabilità delle milizie libiche che collaborano con il fronte Occidentale e alla carenza di coordinamento tra le forze alleate. Per Piano e Failla, così come per Gino Pollicardo e Filippo Calcagno (che invece dopo la tragedia sono stati rilasciati), con ogni probabilità é stato pagato un riscatto. Di certo, in quei giorni, la trattativa per la liberazione di tutti e quattro gli ostaggi era alle battute finali. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto sapere che in quella zona, in quelle ore, era in corso l’operazione per il rilascio degli italiani, ma nonostante questo hanno dato vita ad una serie di raid aerei, provocando la fuga dei rapitori jihadisti, che hanno usato due degli ostaggi come scudi umani.
Grave se le forze Usa erano informate e hanno proceduto ugualmente, ancora più grave se non erano informate. Le fonti dei miliziani hanno riferito di avere inseguito i jihadisti in auto e di avere ingaggiato un conflitto a fuoco, culminato con l’involontaria uccisione dei due italiani e di alcuni sequestratori. Una versione che, però, presenta una serie di clamorose lacune sulla tempistica, sulla dinamica e in particolare sul misterioso incendio della macchina sulla quale viaggiavano i due italiani, che sarebbe stato provocato dai jihadisti per bruciare i soldi del riscatto. Ad aggiungere ulteriori ombre, l’autopsia che le autorità locali hanno preteso di effettuare prima del rimpatrio dei due cadaveri e che, a giudizio dei medici legali italiani, assumerebbe i connotati di un autentico depistaggio, finalizzato a compromettere ogni possibilità di ricostruire la reale dinamica dell’accaduto.
Attorno a questi due eventi, che da un lato testimoniano il primo passo compiuto dall’Italia verso un impegno militare in Libia e dall’altro rivelano tutte le difficoltà e le insidie di un contesto estremamente complicato, si sviluppa la discussione sulla forma di intervento da attuare. Inizialmente si era parlato dell’invio di cinquemila soldati italiani, pubblicamente sollecitato dallo stesso ambasciator e statunitense John Philips. Tra timide aperture di esponenti del governo, secche smentite e dichiarazioni contrastanti, dopo alcuni giorni è arrivata la presa di posizione del premier Matteo Renzi: “L’Italia, con me presidente, non manda cinquemila uomini a fare l’invasione della Libia”. Parole che non sembrano lasciare spazio ad equivoci, ma che dovranno fare i conti con i nuovi sviluppi e con i possibili cambi di scenario. Molto dipenderà dalle scelte che verranno effettuate dagli Stati Uniti, azionista di maggioranza della coalizione anti-Isis.
Il piano del Pentagono: un fuoco di fila di bombardamenti aerei contro campi di addestramento
In realtà il vero nodo da sciogliere, in questo momento, riguarda non tanto le modalità di intervento quanto le prospettive di stabilizzazione successive al conflitto: la Libia è estremamente frammentata, non si riesce a trovare un modo per spingere le varie fazioni a trovare un accordo e le milizie alleate dell’Occidente, al momento, non sembrano né particolarmente forti né sufficientemente affidabili. D’altronde non è possibile rischiare di intervenire senza avere pronta una vera alternativa: in passato è gia accaduto che alla cacciata di dittatori sanguinari sia seguita l’ascesa di gruppi ancora più minacciosi. Negli ultimi giorni è stato il Pentagono, negli Stati Uniti, a definire un piano di intervento che è stato sottoposto al presidente Barack Obama: il primo step prevede un fuoco di fila di bombardamenti aerei contro campi di addestramento, centri di comando, depositi di munizioni e altri siti in cui si raggruppano i militanti dello Stato islamico. In tutto 30 o 40 target, disseminati in quattro aree della Libia, per aprire la strada alle milizie libiche sostenute dall’Occidente, che avranno il compito di combattere sul campo contro le forze jihadiste. Il piano deve ancora essere discusso, sia sul fronte interno che con Regno Unito, Francia e Italia.
La Casa Bianca e il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, tuttavia, considerano ancora troppo elevate le incognite e continuano a predicare prudenza. Per Obama il primo obiettivo resta l’insediamento del governo di unità nazionale, che renderebbe senz’altro più agevole l’applicazione del piano. C’e’ dunque un percorso diplomatico ancora da percorrere e da portare a termine prima di attuare la svolta sul piano militare. Nel frattempo gli Stati Uniti andranno avanti con i raid aerei mirati, condotti con droni e caccia militari e con le varie attività di intelligence. Di certo occorrerà stringere i tempi, considerando che per stabilizzare la Libia, secondo fonti dell’esercito Usa, potrebbe servire all’incirca un decennio.