Pishevar significa anche Silicon Valley, l’ecosistema di imprese hi-tech più famoso del mondo che si è schierato in blocco con la candidata democratica, Hillary Clinton, garantendole supporto e finanziamenti. La Valley a sud di San Francisco sperava di mantenere quella linea diretta con la Casa Bianca inaugurata e consolidata sotto Barack Obama. La disfatta dell’ex Segretario di Stato, che pure in California ha ottenuto il 61,5% di consensi, rappresenta, una sconfitta cocente anche per l’industria digitale californiana che aveva fatto piovere fondi sulla campagna democratica. A iniziare da Google che ha donato 335mila dollari solo da agosto a ottobre. E non è il solo. L’amministratore delegato di Apple, Tim Cook, ha donato personalmente 50mila dollari, mentre il co-fondatore di Facebook Dustin Moskovitz e sua moglie Cari Tuna hanno recapitato a Hillary un “post” di sostegno 20 milioni di dollari. Altri 40mila dollari sono arrivati dal fondatore di Linkedin Reid Hoffman. Il Ceo di Airbnb, Brian Chesky, ha versato 10mila dollari, Reed Hastings di Netflix 40mila.
Gli stessi nomi figuravano in calce a una lettera firmata da 140 imprenditori e manager della Silicon Valley e pubblicata lo scorso giugno in cui si criticava l’approccio di Trump sui limitati investimenti nelle infrastrutture tecnologiche e sul tema dell’immigrazione.
Contro Trump non c’è solo l’elite dell’industria digitale, ma anche le generazioni più giovani di californiani che da mercoledì sera sono scese in strada per manifestare agitando cartelli con su scritto “Not my President”. Un mondo eterogeneo di studenti, afroamericani, latinos e “arrabbiati” vari che ha trovato una saldatura nella contestazione del presidente appena eletto e a cui Yes California, presente alle proteste, si candida ad offrire un ombrello politico.