Sono passati cento anni dall’inizio della Prima Guerra Mondiale, una guerra sostanzialmente ‘europea’ che segnò la fine della belle èpoque, l’illusione positivista di un mondo moderno destinato a migliorarsi e a crescere sempre di più grazie alle nuove invenzioni e ad un’industria in grande espansione. Un mondo fino allora dominato da una cultura fortemente euro-centrica: Parigi e Londra erano le grandi metropoli di quell’epoca, mentre Stati Uniti e Cina non avevano quel ruolo di potenze globali che avrebbero conquistato nei secoli a venire.
La Prima Guerra Mondiale e, dopo nemmeno un ventennio, la Seconda, diedero all’Europa un primo colpo mortale non solo alle sue aspirazioni di unità continentale, ma anche al ruolo di potenza globale. Nacque così il secolo ‘americano’, dominato dai vincitori della ‘Grande Guerra’ e destinato a consolidarsi con la “Guerra Fredda”, la terza e sotterranea guerra mondiale che vedrà per alcuni decenni contrapposti gli Stati Uniti e i suoi alleati all’Unione Sovietica. Non sono uno storico, né voglio cimentarmi in questo serio e delicato lavoro di ricostruzione dei fatti degli ultimi cento anni. Questa ricostruzione semplificata del secolo che ci separa dall’inizio della Prima Guerra Mondiale mi offre semplicemente il pretesto per un’amara riflessione sulle tante occasioni perdute dalla nostra Europa, la madre di milioni di emigranti che trovarono proprio in Brasile (e spesso a causa delle conseguenze delle guerre mondiali) una terra fertile e accogliente dove vivere e stabilirsi.
Anche l’idea di un’Europa Unita, coltivata e poi voluta da grandi leader come De Gasperi e Adenauer (capi di governo dei due Paesi usciti sconfitti e con il maggior numero di morti dal conflitto) nasceva sulle macerie e sulla paura, più che sul sogno e la speranza.
E’ per questi motivi, forse, che ancora oggi sono più le regole economiche e non il progetto politico a dettare l’agenda del governo dell’Unione Europea; una “camicia di forza”, quella dei parametri economici, che il governo italiano vorrebbe rendere più flessibile e adatta ad una nuova pagina di storia europea, più vicina ai cittadini e meno ai mercati.
Eppure proprio oggi il mondo avrebbe bisogno di più Europa; di un’Europa in grado di parlare a voce alta e credibile nelle grandi crisi globali; tutto ciò mentre gli Stati Uniti di Obama sembrano aver optato per una sorta di neo-isolazionismo e la Cina non ha ancora deciso di ‘scendere in campo’ come player politico mondiale. La stessa Russia (basti pensare alla crisi in Ucraina) non appare come un attore imparziale, ma al contrario come un soggetto attivo e di parte nella soluzione delle crisi internazionali. In questo scenario, ripeto, una politica europea comune in campo internazionale potrebbe forse essere uno dei pochi riferimenti credibili e utili alla soluzione dei grandi conflitti ancora aperti nel mondo: Israele-Palestina, Ucraina, Iraq e Siria. “Ci siamo ormai abituati ai morti in abbonamento”, ha detto sconsolato e quasi rassegnato uno dei pochi grandi leader europei degli ultimi anni, Romano Prodi. Eppure deve esistere una via di mezzo percorribile tra l’indifferenza e l’ingerenza, tra l’afasia e l’interventismo che hanno caratterizzato il ruolo delle cosiddette ‘grandi potenze’ nei conflitti internazionali degli ultimi decenni. L’Europa, che oggi pare assistere immobile e impietrita al dramma di centinaia di morti nella Striscia di Gaza, non riesce del resto nemmeno a governare in maniera equilibrata e civile un altro dramma che si consuma quasi tutti i giorni ai confini meridionali del suo territorio: profughi e disperati continuano ad arrivare a Lampedusa e in Sicilia sospinti da guerre e carestie; per loro le coste delle nostre isole sono l’Europa, la civiltà, il progresso. I 27 Paesi dell’Unione Europea non sono ancora stati in grado di organizzare una politica di accoglienza degna del continente più ricco e prospero del pianeta. Un altro insuccesso del vecchio continente che, dopo cento anni, sembra non aver ancora capito qual è potrebbe essere il suo ruolo nel mondo.