Fake news e bufale sono diventate un problema reale. E pure serio poiché incide sulla formazione dell’opinione pubblica e, quindi, sulle decisioni che i cittadini sono chiamati a prendere in ogni democrazia. Dopo la Brexit e l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, in molti hanno puntato il dito contro Facebook e la sua capacità di influenzare milioni di persone in tutto il mondo. Ma sarebbe riduttivo scaricare tutta la responsabilità sulla piattaforma di Mark Zuckerberg. Le menzogne hanno padri e madri quasi sempre certe e riguardano tutti: social media e giornali, cittadini e giornalisti, politici e lobby varie.
Il 2016 ci lascia una lezione dalla quale dovremmo imparare: non c’è stato evento rilevante dell’anno nel quale le fake news non abbiano svolto un ruolo importante, forse decisivo. Dunque, se non vogliamo vivere avvolti da una nebbia di falsità, dobbiamo cominciare a chiederci: che fare?
Merkel vs Facebook
In vista delle prossime elezioni del Bundestag, previste per settembre 2017, la coalizione che sostiene Angela Merkel è intenzionata a proporre misure restrittive contro chi diffonde notizie false. Il ministro della Giustizia, Heiko Mass (Spd) è andato oltre minacciando una stretta penale per chi diffonde notizie false sui social network. In una intervista a Der Spiegel, il capogruppo Spd al Bundestag, Thomas Oppermann, ha quantificato anche il prezzo delle bufale: 500.000 euro di multa a Facebook per ogni notizia falsa pubblicata sul social network e non rimossa entro le 24 ore.
A prima vista non sembra una buona idea. Prima di tutto perché una legge nazionale in un contesto globale come quello della rete non sembra facilmente applicabile. In secondo luogo perché l’attuale ecosistema digitale offre a tutti l’opportunità di esprimersi. Se i giornalisti e i professionisti dell’informazione hanno obblighi deontologici da rispettare, la stessa cosa non si può dire per i cittadini e le bugie, come è noto, sono coetanee dell’umanità. Infine, se vogliamo essere obiettivi, neanche i politici si sottraggono all’utilizzo delle menzogne, alle quali, anzi, ricorrono con una certa disinvoltura soprattutto nelle campagne nelle quali gli elettori sono chiamati ad esprimersi, come hanno insegnato appunto la Brexit e l’elezione di Trump. La legge che colpisce i cittadini varrebbe anche nei loro confronti? Come si concilierebbe con l’articolo 68 della Costituzione italiana che rende i parlamentari non perseguibili per le opinioni espresse?
Qualità e verità
La capacità di Google, Facebook e delle altre grandi piattaforme globali di rimettere le cose a posto con algoritmi in grado di restituire ranking più basati sulla qualità che sulla quantità di visualizzazioni e condivisioni, è fuori discussione. Il problema è se vorranno veramente farlo, visto che sulla “quantità” basano gran parte dei loro miliardari ricavi.
A novembre si è tenuto un hackathon alla Università di Princeton dove tre studenti hanno sviluppato in 36 ore un progetto per sviluppare un algoritmo in grado di autenticare cosa è vero e cosa è falso su Facebook. Ora, appare piuttosto difficile pensare che se tre studenti riescano a trovare una soluzione in 36 ore, l’intelligenza dispiegata da Google e Facebook non possa trovare un correttivo definitivo al problema.
Qualche timido tentativo in questo senso è stato annunciato nelle ultime settimane. Adam Mosseri, vice presidente di Facebook e responsabile del news feed, ha annunciato che l’azienda avvierà la collaborazione con alcuni siti di fact-checking (Snopes, Abc News e Factcheck.org) per controllare la veridicità di notizie segnalate come false tramite un apposito “tasto anti-bufale” messo a disposizione dei lettori. Le fake news non verranno comunque cancellate ma collocate in posizioni più basse nel news feed. La scelta sembra più orientata a deresponsabilizzare la piattaforma, fortemente attaccata dopo l’elezione di Trump, che a individuare una soluzione ampia che renda l’ambiente di Facebook un potente distributore di notizie di qualità al servizio del dibattito, dello scambio delle idee e della opinione pubblica.
Diversa la scelta di Google che ha annunciato la sua intenzione di migliorare l’algoritmo di ricerca per penalizzare le informazioni “non autorevoli” e valorizzare quelle di qualità. A sollevare il problema era stato The Guardian con una lunghissima inchiesta che riportava una serie di casi in cui a precise domande il motore metteva in risalto ai primi posti siti che riportavano risposte inaccettabili. Un esempio su tutti: alla domanda “l’Olocausto ha avuto luogo?”, al primo posto appariva il sito negazionista “Stormfront”, animato da un gruppo che nega la realtà del genocidio degli ebrei da parte dei nazisti. L’obiettivo dichiarato di Google è migliorare gli algoritmi in modo da “fare apparire contenuti più credibili e migliorare la qualità della ricerca”.
Dunque, si torna al vero nodo della questione: la qualità del giornalismo e dell’informazione, con le relative responsabilità di chi opera nel settore pubblicando le notizie, ma anche diffondendole. Il problema è che né Facebook né Google dovrebbero avere il ruolo di decidere cosa è vero e cosa è falso. Questo è un compito che è proprio del giornalismo che sempre di più sarà chiamato a svolgere una funzione di fact-checking sull’attualità, i numeri ma anche le dichiarazioni dei politici o dei cittadini. Ma se le grandi piattaforme globali, che raggiungono e informano miliardi di individui nel mondo, decidessero finalmente di privilegiare l’accuratezza, la qualità, l’approfondimento mettendoli in risalto sulle proprie piattaforme, forse incasserebbero qualche miliardo in meno, ma certamente migliorerebbero la qualità dell’informazione e la vita delle persone.(AGI)