Minacce, tradimenti, giravolte e colpi di scena, ma alla fine il Governo ha tenuto. Dopo essere giunto ad un passo dalla crisi, in seguito all’offensiva dell’ala più dura del fronte berlusconiano, l’esecutivo guidato da Enrico Letta ha tirato un sospiro di sollievo. Si è chiusa una fase delicatissima non soltanto per il Governo, ma per la tenuta economica e sociale di tutto il Paese. Letta ne è uscito rafforzato, ma gli equilibri della politica italiana sono irrimediabilmente destinati a mutare. D’ora in poi nulla sarà più come prima. Silvio Berlusconi, per la prima volta nella sua storia, è stato messo all’angolo da una parte rilevante del suo partito, che dai tempi di Forza Italia fino al Pdl dei nostri giorni, è sempre stato sottoposto ad una gestione rigorosamente padronale. Il leader-monarca, che per vent’anni ha dettato la linea senza mai incontrare opposizione, questa volta è stato tradito.
La sconfitta brucia ancora di più perché è giunta in una delle battaglie più importanti che l’ex premier si sia mai trovato a combattere: ha giocato il tutto per tutto e ha perso rovinosamente. La scelta di provare a far saltare il banco, d’altronde, è apparsa degna di un kamikaze, viste le dure reazioni suscitate in Europa e tra i maggiori poteri del Paese. Staccare la spina al Governo, come reazione ai propri guai giudiziari, è la mossa disperata di un gigante al tramonto, che non ha più margini per scongiurare la sconfitta e che sceglie di mandare a morte “Sansone con tutti i filistei”.
La crisi politica aperta da Berlusconi affonda le radici nella condanna definitiva, a quattro anni di reclusione, per il reato di frode fiscale. Inizialmente il leader del centrodestra è rimasto lucido e ha provato ad intavolare un negoziato politico con i massimi poteri dello Stato, nella speranza di ottenere un salvacondotto. Man mano che ha visto restringersi i margini di manovra, il nervosismo è iniziato a lievitare. Berlusconi si è sentito tradito dal centrosinistra e dal presidente della Repubblica, dai quali si aspettava una ricompensa per aver contribuito a far nascere il Governo Letta. A quel punto ha provato a far pesare la compartecipazione del suo partito alla maggioranza di governo, forte dei numeri che in Senato risultano decisivi per la sopravvivenza dell’esecutivo.
La principale preoccupazione di Berlusconi, al di là della pena da scontare, che grazie all’indulto si riduce ad un solo anno, con la possibilità di scegliere tra gli arresti domiciliari e l’affidamento ai servizi sociali, è quella di evitare la decadenza da parlamentare, che lo priverebbe dell’immunità concessa a deputati e senatori, esponendolo al rischio di ulteriori condanne. Per queste ragioni, quando l’iter è approdato nella giunta per le immunità del Senato, il Pdl ha tentato di bloccare il procedimento, appellandosi alla presunta incostituzionalità della legge Severino, nella parte che riguarda la retroattività della norma. Una norma che lo stesso Pdl, pochi mesi prima, aveva votato in maniera compatta, senza opporre contestazione. Il centrosinistra, che non può certo permettersi un calo di popolarità, nella giunta per le immunità ha fatto blocco con il Movimento 5 Stelle, respingendo l’offensiva della fazione berlusconiana: l’iter proseguirà e la giunta per le immunità del Senato sarà chiamata ad esprimersi sulla decadenza di Berlusconi.
L’ex premier ha reagito da leone ferito, minacciando fuoco e fiamme, evocando il colpo di Stato e spiegando chiaramente:
— Non intendo restare al Governo con chi vuole la mia eliminazione dalla vita politica per via giudiziaria.
Per alcuni giorni ha oscillato tra le posizioni dei falchi, che spingevano per l’uscita dal Governo, e quelle delle colombe, che predicavano un atteggiamento di responsabilità e la fedeltà all’esecutivo. Alla fine ha optato per la linea più dura, imponendo ai cinque ministri in quota Pdl di abbandonare l’incarico e annunciando le dimissioni di massa dei parlamentari del suo partito. La decisione del leader del centrodestra ha aperto formalmente la crisi, che per diversi giorni ha infiammato il dibattito pubblico nel Paese.
Anche l’UE aveva grande preoccupazione con la possibilità della caduta del Governo
Il premier Enrico Letta ha chiesto immediatamente la verifica in Parlamento e sono subito scattate febbrili consultazioni in seno ai partiti e accorati appelli alla responsabilità da parte del presidente della Repubblica, del capo dell’esecutivo e dei maggiori rappresentanti del mondo dell’impresa e del lavoro. Un coro pressoché unanime, che faceva perno su un assunto: se cade il Governo, l’Italia va a fondo.
Si è fatta sentire anche l’Europa, con il presidente dell’europarlamento, Martin Schultz, che ha avvertito:
— Tutti i Paesi osservano l’Italia con il fiato sospeso, perché in caso di caduta del Governo si verificherebbero enormi turbolenze politiche e finanziarie in tutta l’Unione.
Berlusconi ha fatto orecchie da mercante, tenendo dritta la barra, deciso ad andare fino in fondo, dicendo “sfiducia nei confronti dell’esecutivo e torniamo subito al voto”.
Nel Pdl, però, qualcosa si è incrinato. Un pezzo importante del partito si è rivoltato contro il suo capo: sono usciti allo scoperto una serie di pezzi da novanta berlusconiani, come il vicepresidente del Consiglio e segretario del partito, Angelino Alfano, il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto e i ministri Lupi, Quagliariello, De Girolamo e Lorenzin. Un gruppo particolarmente folto, che può fare affidamento su decine di deputati e senatori, e che ha annunciato di essere determinato a votare la fiducia al Governo Letta, “nell’interesse del Paese e contro la deriva estremista che rischia di imporsi nel partito”.
Letta, il giorno prima di andare alla conta, ha respinto le dimissioni dei ministri. All’interno del Pdl si sono vissuti momenti drammatici, con duri scambi polemici, reciproche accuse e riunioni fiume, che sono proseguite fino alla mattina del 2 ottobre, il fatidico giorno della verifica di governo. Berlusconi si è presentato in Senato annunciando che il Pdl avrebbe votato contro il Governo, poi si è detto possibilista sul voto di fiducia, a metà mattina è tornato a sposare la linea dell’intransigenza e 40 minuti dopo ha cambiato per l’ultima volta posizione.
Ormai consapevole che i numeri non erano più dalla sua parte, ha preso la parola per una brevissima dichiarazione:
— Votiamo la fiducia, non senza un grande travaglio interno.
Il premier Letta ha incassato un’ampia vittoria (235 voti a favore al Senato e 435 alla Camera), mentre il volto di Berlusconi era l’immagine della sconfitta. Un insuccesso ancora più traumatico, alla luce della profonda spaccatura che ha sconvolto il Pdl: si calcola che il numero dei parlamentari dissidenti oscilli tra le 50 e le 70 unità. Tra costoro, alcuni spingono per la formazione di un gruppo autonomo e dunque per la scissione, altri lavorano per ricucire. Di fatto, però, il partito ha mutato il proprio dna, scoprendo improvvisamente l’ebbrezza della dialettica e del dissenso. Si è avviato un processo di portata storica, destinato a produrre ripercussioni nel centrosinistra: tra i tanti scenari che si intravedono all’orizzonte, il più concreto suggerisce un processo di ricomposizione nell’area moderata di centro, che potrebbe realizzarsi attraverso l’abbraccio tra i dissidenti Pdl e i centristi insoddisfatti Pd. Un’ipotesi che segnerebbe il definitivo accantonamento dell’incerto bipolarismo all’italiana.
Gli ultimi sviluppi cambiano le carte in tavola anche per il Governo: il premier Enrico Letta, risolti i problemi legati alle contraddizioni del centrodestra ed uscito enormemente rafforzato dal voto di fiducia, non ha più alibi. Il suo esecutivo ha il compito di traghettare l’Italia fuori dalla tempesta. Urgono risposte, rapide ed efficaci, alle istanze di un Paese in grande difficoltà. Le priorità si chiamano sviluppo e lavoro. Parallelamente vanno risolti altri nodi, a partire dal varo di una nuova legge elettorale che favorisca la governabilità.