Il ritorno di Matteo Renzi alla segreteria del Pd e gli scenari che si aprono letti negli editoriali dei quotidiani in edicola oggi.
la Repubblica
I tre elefanti di Matteo
“Il Pd è Renzi, e non esistono alternative credibili. Il Pd è di Renzi, e dunque può farne ciò che vuole”, scrive Massimo Giannini su Repubblica. “Ma qui torniamo al punto: ora dove vuole portare il partito e il Paese? Le questioni essenziali da chiarire sono tre. Legge elettorale, alleanze e governo Gentiloni. Il Renzi ” reloaded” non chiarisce nulla. Nel comizio di domenica sera (officiato sul terrazzo di un Nazareno “riconquistato” dall’intendenza e “bonificato” dalla dissidenza) il segretario si è limitato a dire ciò che “non sa” e “non vuole”. Non vuole rinunciare alla “vocazione maggioritaria” (diversivo teorico, visto il pantano neo-proporzionale nel quale stiamo annaspando). Non vuole fare “grandi coalizioni” se non con la società civile (espediente demagogico, vista l’impossibile autosufficienza di un solo partito in un assetto tripolare). Non sa “quando andremo a votare” (dubbio retorico, visto che per rassicurare davvero Gentiloni avrebbe dovuto dire “si voterà nel 2018″). Il leader vuole tenersi mani libere”.
Corriere della Sera
Un partito specchio del capo
“…nel risultato di domenica c’è qualcosa di più delle doti personali di un leader”. Lo sottolinea Antonio Polito nell’ditoriale sul Corriere della sera. “C’è anche la mutazione in corso di un partito che si è rivelato molto diverso da quello che nel 2013 elesse per la prima volta Renzi. E non solo per i numeri dell’affluenza: un milione e ottocentomila sono tanti, ma sono pur sempre un milione in meno dell’altra volta, e molti di meno di quelli annunciati domenica sera (è troppo chiedere più trasparenza e rapidità nel contarli?).
Ma soprattutto segnalano un crollo vicino al dimezzamento nelle regioni rosse, un forte calo al Nord e una progressiva meridionalizzazione dell’elettorato piddino. Poi contano le motivazioni. Quattro anni fa il Pd elesse Renzi per vincere, scommettendo sulla sua grande popolarità (fin dalla loro nascita i Democratici non hanno ancora mai vinto una maggioranza parlamentare alle elezioni). Stavolta invece il Pd ha scelto Renzi nonostante questi abbia già perso la sua prova più importante, il referendum, e pur sapendo che l’impopolarità accumulata in tre anni di governo può farlo perdere ancora (ammesso che qualcuno possa mai vincere le prossime elezioni, visto lo scempio di sistemi elettorali che è stato fatto negli anni).
Si può insomma dire che per la prima volta nella sua storia di amalgama mal riuscito, e anche al di là delle convenienze del momento, il Pd sia stato davvero conquistato da un leader, che infatti ora gli chiede lealtà perinde ac cadaver («Basta polemiche fino al 2021»). …
Il Foglio
L’alternativa è la sinistra Fighetty
“E se l’unica alternativa possibile alla sinistra Piketty fosse la sinistra Fighetty?” Il direttore del Foglio Claudio Cerasa tratteggia un parallelo fra Renzi, Trudeau e Macron. “Le storie sono molto diverse, i paesi non sono paragonabili, le parabole sono differenti ma tra di loro, se ci si ferma un attimo, esiste qualcosa in comune che merita di essere messo in luce: qualcosa che riguarda un tratto culturale che contrappone in modo netto la sinistra alla Mélenchon e quella alla Macron. Loro sono Justin Trudeau (primo ministro canadese, progressista, 46 anni), Emmanuel Macron (prossimo probabile presidente francese, 39 anni, indipendente, cultura progressista) e Matteo Renzi (segretario del più importante partito progressista d’Europa, il Pd) e tutti e tre, come ha notato ieri in un corsivo il quotidiano francese Le Parisien, rappresentano il volto di una nuova sinistra possibile (con la p molto minuscola) che a differenza della sinistra alla Mélenchon ha scelto di non ciurlare nel manico di fronte ai populisti, occupando una precisa casella della politica: quella, scrive Le Parisien, del “pensiero liberale che supera i tradizionali steccati dei partiti posizionando nel cuore del divario tra destra e sinistra per combattere ogni forma di populismo, dall’America all’Europa”.
Il Fatto Quotidiano
I peggioristi
“La scena dei renziani, con giornaloni, telegiornaloni e Mannoni al seguito, che esultano per la formidabile partecipazione alle primarie perché hanno perso solo un terzo di votanti in quattro anni ricorda il tripudio dei berluscones ogniqualvolta uno di loro veniva condannato per mafia o corruzione, al grido di “credevo peggio”. Marco Travaglio sul Foglio sottolinea che “Matteo Renzi, ormai espertissimo di sconfitte (non giudiziarie ma elettorali), ha imparato in frewtta anche questa lezione. Sapeva bene di stare sulle palle alla maggioranza deglli italiani, e anche dei potenziali elettori del Pd, vedi elezioni comunali e referendum del 2016. Quindi prevedeva che, ai gazebo delle primarie, peraltro già vinte, i 3 milioni e passa del 2013 se li sarebbe scordati. Così ha fissato l’asticella minima a un milione, cioè a un terzo dell’ultima affluenza, per poi spacciare da grande trionfo tutto quello che veniva in più. “Credevo peggio”.” (AGI)