Comunità Italiana

Il sostegno pubblico alla cultura

I soldi sono pochi: si finanzino le attività che danno ritorni tangibili

In nome del benessere sociale l’Italia spese soldi che non aveva. I soldi presi in prestito ci hanno permesso di vivere bene. E di abituarci male. Ora il debito pubblico é enorme. Non sarà mai restituito, ma gli interessi vanno pagati o sarà la bancarotta. Per far quadrare i conti bisogna ridurre le spese. Ci sono altre strade, ma bisogna comunque spendere meno. Vi sono spese non comprimibili, gli stipendi dei dipendenti pubblici, per esempio, o i benefici dei politicanti. Bisogna tagliare le altre. Chi se ne beneficiava protesta e tutti hanno la loro ragione.

 
Tremonti ha tagliato parte degli incentivi alla cultura. Gli strilli, spesso ragli, raggiunsero il cielo. Il ministro alla cultura si dimise, colpevole tra l’altro di aver fatto cadere la Casa dei Gladiatori a Pompei per scarsa manutenzione. Piú di altri strillarono gli operatori del cinema, i cui compensi erano finanziati dal governo anche quando producevano idiozie. Non é un buon momento per il cinema italiano. E allora alcune riflessioni ci stanno.
 
Una cultura viva, brillante, originale, è vetrina, vita, ricchezza e orgoglio di un paese. L’Italia vanta un patrimonio culturale immenso: deve valorizzarlo quanto può. Promuova la cultura, in tutte le sue forme. Se i soldi sono pochi, li spenda bene. Il cinema, per esempio, potrebbe promuovere efficacemente l’azienda Italia, ma di Fellini non ne abbiamo più, e dare soldi ai film ridanciani di Cristian de Sica è danaro buttato. Il cinema, così come lo spettacolo in genere, si mantenga da solo, produca buoni film, paghi meno i Benigni e i de Sica, che sono lavoratori come gli altri, e se lo spettacolo è buono la gente pagherà il biglietto. La lirica è cultura italica: merita sostegno. Ma si paghino meno i cantanti, i direttori, gli addetti ai lavori. Non si può finanziare la prima alla Scala della notte di Sant’Ambrogio: ci va solo gente che può pagare il biglietto, per quanto caro sia. Si finanzi la manutenzione e la valorizzazione del patrimonio culturale, la promozione e l’offerta della cultura destinata alla gente comune e ai turisti: Pompei e le zone archeologiche, i musei e monumenti, le città d’arte, i paesaggi incantevoli, i meravigliosi borghi che all’estero poca gente conosce. Si cerchi la partecipazione dei capitali privati senza alzare barriere stupide. La Tod’s offre soldi per restaurare il Colosseo: le proteste dei puri ostacolano l’accordo. Davvero c’è chi pensa che Tod’s non voglia come contropartita un ritorno pubblicitario? Si discutano i dettagli dell’accordo, ma non l’idea. Magari l’Italia potesse proporre un modello puro e universale di cultura e potesse sostenerlo: non può. Ne faccia un business. Dia soldi ai progetti che danno ritorni utilitaristici. Incentivi il turismo. Rafforzi l’immagine dell’Italia all’estero. É un punto dolente. Il turista non va in Italia perché l’immagine della nostra terra è offuscata dalla vita privata di Berlusconi. Non va perché altri paesi offrono strutture e servizi migliori a prezzi più bassi. Non va perché il prodotto Italia, potenzialmente il migliore, è mal gestito e male offerto. Dal governo e dagli italiani tutti.
 
Noi emigrati cerchiamo, nell’Italia di oggi, segnali della nostra cultura. Disponiamo di RAI Italia, mantenuta dal contribuente attraverso il canone obbligatorio e la copertura dei deficit gestionali. Ma accanto a rare tracce dei nostri inimitabili giacimenti culturali, ella ci infligge la visione di incredibili giacimenti di colpevole futilità, accarezzando quella parte di grullismo zen che c’è in noi. Entrano così in casa nostra i famosi dell’isola, i famosi che danzano, i famosi che raccomandano – immancabile il nostro assurdo principino – i famosi che scrivono libri che nessuno legge o fanno gossip che a nessuno interessa. Favolose nullità che non conosciamo e non ci interessa conoscere. Un assurdo minuetto autoreferenziale di un mondo che sembra finto. Sto pensando seriamente di portare in tribunale la RAI per il reato di circonvenzione di emigrato o, quanto meno, di furto del nostro tempo.