Comunità Italiana

“Il suo nome era Ayrton”

Venti anni fa a Imola l’incidente mortale di Ayrton Senna

Lucio Dalla, uno dei cantanti italiani più noti e più amati (l’Italia intera pianse il giorno della sua improvvisa morte in Svizzera alla vigilia di un concerto) ha dedicato ad Ayrton Senna una delle sue più belle canzoni, un inno struggente e commovente in memoria di uno dei più grandi (forse uno degli ultimi) campioni “romantici” che lo sport mondiale abbia mai avuto.
L’omaggio di Dalla era in qualche modo l’omaggio dell’Italia e degli italiani all’uomo e al pilota, ad un personaggio che aveva conquistato il cuore di milioni di persone in tutto il mondo, non solo in Brasile e non solo tra gli appassionati di corse e di ‘Formula 1’.
In Italia, quando morì, Senna era già un ‘mito’, e lo era forse proprio perché non pilotava una Ferrari, insieme alla nazionale “azzurra” la vera grande sportiva di questo Paese; tutti avremmo voluto vedere Senna a bordo di una ‘rossa’, ma tutti lo rispettavamo e lo ammiravamo proprio perché non capivamo come – per la prima volta – un pilota a bordo di un bolide diverso dalla Ferrari riuscisse a conquistarci e ad appassionarci tanto.
La morte di Senna ha rappresentato anche per me un momento unico e indimenticabile; potrei dire che la mia storia ‘brasiliana’ inizia con la morte di Senna.
Siamo nel maggio del 1994. Da poche settimane sono stato chiamato a Torino, al centro internazionale di formazione delle Nazioni Unite, per essere il ‘Tutor” di un gruppo di sindacalisti brasiliani; avrei dovuto seguire per tre mesi la loro attività formativa in Italia, coordinando insieme ai docenti i periodi di studio e divenendo il loro riferimento umano oltre che professionale in Italia. Non conoscevo ancora il Brasile e a malapena parlavo il portoghese, che avevo studiato in un corso ‘full immersion’ presso l’Ambasciata brasiliana a Roma.
La domenica del Gran Premio di Imola di Formula 1 ero tornato a Roma da Torino per sistemare alcune faccende domestiche; dopo tre fine settimana trascorsi con i miei nuovi amici brasiliani approfittavo di una breve pausa per sistemare alcune piccole faccende domestiche.
Il lunedi rientro a Torino e mi trovo davanti una scena surreale: gli undici sindacalisti erano quasi in stato di choc, si rifiutavano di riprendere a seguire il ciclo di lezioni e alcuni di loro volevano rientrare in Brasile.  I dirigenti del centro formativo mi chiedono disperatamente di fare qualcosa; quel corso avrebbe dovuto proseguire per tre mesi ed era la prima tappa di un lavoro che sarebbe continuato per altri tre anni: interromperlo avrebbe significato fare saltare tutto, perdere milioni di lire (allora l’euro non c’era) e compromettere anni di lavoro.
Mi sedetti con gli amici brasiliani, parlai con ognuno di loro, piansi insieme a loro; per la prima volta mi sono trovato di fronte all’essenza del popolo brasiliano: un popolo triste e allegro allo stesso tempo,  pieno di vita, ma anche fatalista e capace di un pessimismo cosmico, rapidissimi nel buttarsi nella follia del carnevale, ma altrettanto veloce nel rifugiarsi in un intimismo impenetrabile.   
Questa mia empatia mi fece conquistare la loro fiducia e la loro amicizia (che continua ancora oggi) e devo forse ad Ayrton Senna il fatto di sentirmi oggi tanto brasiliano quanto italiano.
I sindacalisti brasiliani continuarono il corso e rientrarono a Roma con un aereo che decollò alle ore 19:55 del 12 luglio del 1994: il Brasile aveva appena battuto l’Italia ai calci di rigore vincendo la coppa del mondo di calcio negli Stati Uniti. Ma questa, è un’altra storia…