Cambiano i tempi ma resta uguale il dramma di chi cerca fortuna lontano dal proprio Paese
“Come figlio di immigrati, sono felice di trovarmi in questo Paese che fu costruito da simili famiglie”: è con queste parole che Papa Francesco ha aperto la sua recente visita negli Stati Uniti, all’indomani del suo storico viaggio a Cuba. Non perde occasione, questo Pontefice, per ricordarci le sue origini di “figlio di immigrati”; non si tratta ovviamente di un caso, né potrebbe esserlo, considerando il pulpito dal quale provengono tali parole. E non si tratta nemmeno di un omaggio dovuto alla memoria dei suoi antenati o ai tanti emigranti che dall’Italia e dal resto d’Europa sbarcarono nella sua Argentina, un Paese — come gli Stati Uniti — profondamente segnato dall’arrivo e dall’insediamento delle popolazioni immigrate. Il messaggio del Papa non ha il carattere della nostalgia, o della ‘saudade’ come direbbero i brasiliani; siamo semmai davanti a parole di profezia e di denuncia. Parole profetiche, perché il Santo Padre vuole essere fedele alla sua missione di annunciatore coraggioso del Vangelo in un mondo secolarizzato, segnato da crisi epocali e da continue diaspore causate da guerre e carestie. Parole di denuncia, che vanno dritte al cuore di quello che forse è il vero grande dramma di questo nuovo secolo, un dramma che noi italiani abbiamo ormai imparato a conoscere e a riconoscere nei volti e nelle storie di migliaia di profughi approdati lungo le coste meridionali della nostra penisola e delle nostre isole.
Un dramma che i nostri nonni hanno conosciuto direttamente o tramite le storie raccontate e poi tramandate da parenti, amici e conoscenti, costretti a cercare fortuna lontano dal loro paese, dalla loro patria; una patria spesso ‘matrigna’ per tanti contadini (prima del nord e poi del sud), che per la prima volta videro il mare quando salirono a bordo dei transatlantici che li avrebbero portati sulla sponda opposta dell’Oceano Atlantico.
Il prossimo anno ricorderemo i 110 anni dal naufragio del “Sirio”, il transatlantico pieno di emigrati italiani che si inabissò a sud della Spagna prima ancora di varcare lo stretto di Gibilterra; morirono almeno cento persone, tante donne e anche bambini. Molti erano i clandestini a bordo e ciò impedì di compiere un censimento attendibile delle vittime.
Emigrati, profughi, rifugiati, vittime: cambiano i tempi, ma il dramma è lo stesso; a volte assisto incredulo e perplesso al tentativo di creare classifiche e gerarchie tra queste categorie di persone. Ci sarebbero gli emigrati di “serie A” e di “serie B”, i rifugiati “veri” da quelli “falsi”, le vittime “innocenti”, ma anche quelle “colpevoli”… No, mi spiace. Da italiano all’estero, da cittadino del mondo non mi presterò mai a questo gioco cinico e fuorviante. Chi rischia la propria vita su un barcone che attraversa il Mediterraneo non è così diverso da chi attraversava l’Oceano Atlantico in terza classe; l’umanità è una e il mondo appartiene a tutti. Barriere e frontiere, muri e fili spinati sono invenzioni dell’uomo: a volte ce ne dimentichiamo e per comodità pensiamo che sia logico e naturale vivere in un mondo fatto di dogane e confini. Il processo che ha portato all’unificazione dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale deve continuare all’insegna dell’integrazione e dell’accoglienza e non della chiusura e della xenofobia. Lo hanno capito bene i leader dei tre maggiori Paesi europei, Germania Francia e Italia, mentre (per un altro di quei paradossi della storia!) sono proprio i Paesi dell’est (Slovacchia, Romania, Ungheria), arrivati per ultimi e accolti a braccia aperte dai fondatori dell’Unione Europea, a porre i maggiori ostacoli e ad opporre le maggiori resistenze a questo sforzo di solidarietà.
E’ proprio per questo che le parole del Papa sono un richiamo per ognuno di noi e soprattutto per politici e governanti; parole forti e attuali ai quali nessuno può sottrarsi. Sono le parole di un immigrato, che non ha dimenticato la propria storia e le proprie radici. Ecco forse il vero grande peccato dei nostri tempi: la perdita di una memoria collettiva. Sarebbe bello che il giubileo straordinario che si aprirà tra poche settimane aiutasse il mondo, non solo quello cristiano, a recuperare questa memoria perduta. Ne sentiamo proprio il bisogno.