Comunità Italiana

Imprigionato in un corpo immobile Ingegnere inglese chiede di morire

Dopo un incidente Tony Nicklinson muove solo testa e occhi. Ma il suicidio assistito è punito dalla legge

MILANO – Da cinque anni Tony Nicklinson vive intrappolato in un corpo che non riconosce più, dopo un devastante ictus che lo ha colpito durante un viaggio d’affari ad Atene nel 2005 e che lo ha lasciato completamente paralizzato, eccezion fatta per la testa e gli occhi, le sole parti che riesce ancora a muovere. Una condizione nota in medicina con il nome di "locked-in syndrome" (ovvero, sindrome da chiavistello o dell’uomo incatenato), che l’ingegnere 54enne non è più disposto a sopportare, tanto da aver iniziato una battaglia legale, che rischia di arrivare fino alla Suprema Corte, per permettere alla moglie Jane di "ucciderlo" senza per questo essere accusata di omicidio, come invece succederebbe con le attuali leggi vigenti in Inghilterra. L’idea dell’uomo, che comunica utilizzando una tastiera Perspex, sarebbe quella di morire in casa propria, con tutta la sua famiglia accanto (ha due figlie, Lauren, 22 anni, e Beth, 20), piuttosto che essere costretto a volare fino in Svizzera, dove, invece, l’eutanasia è legale.

{mosimage}«SENZA DIGNITÀ» – «Sono paralizzato dal collo in giù e non riesco a parlare – ha detto Nicklinson in una dichiarazione pubblica – e ho bisogno di aiuto per fare la maggior parte delle cose. Devo essere lavato, vestito e alimentato attraverso un tubo per due volte al giorno e non mi posso grattare se ho prurito o toccare il naso. Una vita del genere mi ha tolto la mia dignità di uomo e non intendo andare avanti così per i prossimi vent’anni o giù di lì, sono stufo di vivere e non sono affatto grato ai medici che mi hanno salvato la vita. Se potessi tornare indietro, non chiamerei mai più quella maledetta ambulanza e lascerei che il destino facesse il suo corso». Il suo legale, l’avvocato Saimo Chahal, ha presentato un’istanza all’Alta Corte per chiedere la revisione giudiziaria del regolamento imposto a febbraio dal Director of Public Prosecutions (il nostro procuratore della Repubblica), Keir Starmer, sulla punibilità o meno nei casi di suicidio assistito. «Qualunque cosa faccia la signora Nicklinson – si legge nella lettera del legale di famiglia – è mossa da compassione e basata sul fatto che lo stesso signor Nicklinson è arrivato a tale decisione in maniera lucida e ragionata. E, come sapete, il consenso non è una difesa all’omicidio. Il volere di entrambi è di sapere se la signora Jane sarà processata per omicidio nel caso in cui assistesse il marito a porre fine alla sua vita avendo un ruolo attivo».

ERGASTOLO – Secondo gli avvocati di Nicklinson, la legge sull’omicidio costituisce un’ingerenza sproporzionata al diritto di autonomia personale sancito dall’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani e chiedono, pertanto, che la legge sia cambiata, per riconoscere la differenza fra eutanasia e omicidio. In Inghilterra, il suicidio assistito è punito con 14 anni di galera, ma nel caso in cui la donna fosse ritenuta colpevole di aver ucciso il marito, anche se fosse stato quest’ultimo a incoraggiarla a farlo, la pena sarebbe l’ergastolo. «Dev’essere possibile cambiare la legge – ha spiegato Jane al Guardian – anche se nessuno dice che sia una cosa facile. Vedere il mio povero Tony soffrire in questo modo è una cosa indicibile. Il rugby era la sua passione e lui per carattere era l’anima di ogni festa e il fatto che ora non riesca nemmeno a comunicare è estremamente frustrante. Bisogna cambiare la legge e questo è il solo modo per mio marito di avere quello che vuole, anche se non mi chiederà mai di aiutarlo, se pensasse che potrei essere accusata di omicidio». Nicklinson, che trascorre la maggior parte del tempo a guardare la tv o a scrivere le sue memorie grazie a un’apposita tastiera manovrata da un cordino che porta al collo, necessita di continua assistenza e durante la notte ha un’infermiera che si occupa di lui e che gli pulisce la saliVa o lo aiuta a muovere gli arti.

I RISCHI – «La situazione del signor Nicklinson è davvero tragica – ha detto al Daily Mail Sarah Wootton, chief executiveDignity in Dying – e la sua richiesta di morire è una domanda difficile da porre alla società, perché non ha risposte facili. Di certo, la legge vigente non è dalla parte dei Nicklinson e sarebbe impossibile non provare simpatia per questa famiglia, anche se il diritto del signor Tony di stabilire la sua morte deve essere necessariamente bilanciato con le preoccupazioni circa l’impatto che potrebbe avere la legalizzazione del suicidio assistito su gruppi di persone potenzialmente vulnerabili». Un timore che è anche del rappresentante di Care not Killing, secondo cui «rimuovere o ammorbidire la pena per la cosiddetta "dolce morte" lascerebbe persone vulnerabili senza un’adeguata protezione legale e contribuirebbe a rafforzare l’idea che la vita di una persona malata o disabile valga meno delle altre».
 
Fonte: www.corriere.it