Comunità Italiana

Indagini sui 500 morti

“E’ un caso scomodo”, come lo definisce adesso il capo dell’Europol, Rob Wainwright. Scomodo perché si intreccia con quella che sembra essere una serie di negligenze, cavillosità burocratiche, atteggiamenti liquidatori. Eppure il “naufragio dimenticato” del 9 aprile scorso costò la vita a circa 500 persone: il peggiore del 2016, che a sua volta è l’anno più nero delle tragedie legate all’immigrazione clandestina nel Mediterraneo. Per questo l’Europol, sollecitata da una lunga inchiesta giornalistica, ha deciso di fare luce sulla strage, che ha visto centinaia di disperati abbandonati in mare, a morire annegati, da mercanti di uomini che avrebbero potuto recuperarli dopo che la loro imbarcazione era andata a fondo. Ma anche, a quanto pare, governi della regione incapaci di capire la portata della sciagura, o semplicemente di assumersi le proprie responsabilità. Eppure, come risulta anche da un recente rapporto di Medici senza Frontiere, ogni giorno che passa l’emergenza è sempre di più stringente e casi come quello che ora interessa le massime autorità di polizia europee possono ripetersi in ogni momento. Il caso del “naufragio dimenticato” è stato riaperto dalla Bbc e dalla Reuters, che hanno preso a scavare sulla vicenda immediatamente dopo che si era venuto a sapere, grazie alle autorità italiane, della tragedia. Ma questa era già avvenuta da una settimana: i superstiti da salvare ormai erano molto pochi.

Ecco la ricostruzione della vicenda.

I fatti – Alle 2 del mattino del 9 aprile 2016 un peschereccio in condizioni fatiscenti, insieme ad un numero imprecisato di altre imbarcazioni, lascia il porto egiziano di Rashid, poche miglia ad est di Alessandria. A bordo ci sono circa 500 migranti. Vengono dalla Somalia, dal Sudan, dall’Etiopia, dall’Egitto stesso. Ognuno di loro ha pagato tra i 1.600 ed i 1.900 euro per l’ultima tappa del loro viaggio della speranza. La parte più difficile. La barca potrebbe portare al massimo – e già in condizioni precarie – non più di 200 persone, ma altre 300 si aggiungono all’ultimo momento. Giunto al largo della costa egiziana il peschereccio inizia a dare segno di scarsa stabilità: pende da un lato per via dell’eccesso di peso dovuto alla presenza di così tanti passeggeri. Si inclina, e questo scatena il panico, perché tutti si buttano sul lato opposto e la barca, a questo punto, si rovescia. La maggior parte dei passeggeri muore nel giro di pochi minuti, ma almeno un centinaio potrebbe essere recuperato dalle altre imbarcazioni, che invece mettono i motori a tutto vapore e si allontanano dalla zona del naufragio. Chi tenta di aiutare, viene minacciato di morte.
L’allarme – Come sempre in questi casi, i superstiti sono abbandonati per giorni e giorni in balia delle onde aggrappati a zattere o a quel che resta a galla. Prima di andarsene, i trafficanti di uomini hanno spiegato loro – come unica forma di aiuto – di non dire mai di essere partiti dall’Egitto, perché scatterebbe il rimpatrio immediato. Meglio dire di provenire dalla Libia, perché il caos politico e militare in cui si trova il Paese di fatto impedisce di essere rimandati indietro. Dopo una settimana, unità della guardia costiera italiana intercettano un messaggio con una richiesta d’aiuto da uno dei pochi sopravvissuti e scattano le operazioni di recupero. Ma alla fine sono solo in 37 quelli che riescono a salvare la vita. E tutti dicono di essersi imbarcati in Libia. Anche l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite viene tratto in inganno e dalla Grecia (dove nel frattempo i clandestini sono stati portati) fa sapere che in effetti è la Libia l’ultimo paese di transito da loro toccato prima di avvicinarsi all’Europa
L’inchiesta e le risposte – L’atto d’accusa della Reuters e della Bbc non può essere più chiaro. “La Guardia Costiera Greca”, si legge sul sito della televisione pubblica britannica, “non ha fatto presente il caso alle autorità giudiziarie del proprio paese con la motivazione che non vi sono prove che il crimine sia stato compiuto nelle acque territoriali greche”. Inoltre lo stesso ministero della giustizia di Atene non ha voluto rilasciare commenti in materia. Il governo egiziano “non ha mai voluto riconoscere pubblicamente l’avvenuto naufragio nè che il viaggio avesse avuto inizio da uno dei suoi porti, lasciando così nell’incertezza le famiglie delle vittime”. Questo nonostante “lo scorso luglio sette persone siano state condannate in contumacia da un tribunale di Alessandria”. Ed in ogni caso “sono rimasti irrintracciabili, mentre il reato loro ascritto non è quello di omicidio, ma di frode”. E il ministero della giustizia ha commentato, ad una domanda diretta delle due testate britanniche, che “in caso sia appurata l’esistenza di un crimine così efferato, non si esiterà di adottare e misure necessarie”. Oggi l’Europol, per bocca del suo responsabile massimo, denuncia la “mancanza di risposte chiare” su quello che è successo ad aprile, a 500 disperati.(AGI)