Comunità Italiana

Italia fuori dalla crisi

Nel 2015 l’Italia è uscita finalmente dalla crisi, registrando per la prima volta dopo tre anni una crescita del Pil, ma nel Paese crescono le diseguaglianze dal punto di vista della distribuzione del reddito. Lo rileva l’Istat nel rapporto annuale 2016, sottolineando che a pesare sono, in particolare, le differenze di genere, di età, di titolo di studio e di posizione contrattuale (in particolare la stabilità dell’occupazione) e la famiglia di provenienza. “Dopo la recessione degli ultimi tre anni, nel 2015 il Pil in volume ha segnato una moderata crescita (+0,8%), che riflette la marcata accelerazione dell’attività nel primo trimestre e il progressivo rallentamento nel resto dell’anno”. La lieve ripresa, prosegue l’Istat proseguirà anche nel 2016. Se il dato, dal punto di vista macroeconomico, lascia bene sperare, non può essere sottovalutato però il fatto che in Italia la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentata in dieci anni (1990-2010) da 0,40 a 0,51: “si tratta dell’incremento più alto tra i paesi per i quali sono disponibili i dati”. Per invertire il trend assumono particolare rilievo interventi pre-distributivi in grado di incidere sul funzionamento dei mercati e in particolare sui meccanismi che conducono alla formazione dei redditi primari. Tra questi si includono le politiche (di istruzione e sulla salute, in primis) che aiutano gli individui a dotarsi di capacità meglio remunerate sul mercato del lavoro.

La differenza di genere, spiega l’Istat, “è una delle principali fonti di disuguaglianza” nella distribuzione dei redditi lordi da lavoro sul mercato. Per gli uomini occupati è relativamente più facile che per le occupate raggiungere livelli più elevati di reddito. Il reddito da lavoro cresce al crescere dell’età, con una flessione negli anni che precedono il pensionamento. L’irregolarità temporale del lavoro ha effetti quantitativamente e qualitativamente molto rilevanti sulla disuguaglianza dei redditi primari. Un altro svantaggio distributivo è riconducibile ai contratti a termine e ai rapporti di collaborazione parasubordinata. Il livello professionale dei genitori e il titolo di godimento dell’abitazione, indicativi delle condizioni materiali nelle quali gli individui si sono trovati nella loro adolescenza, sono correlati significativamente con il reddito dei figli. L’effetto è più marcato nel Regno Unito, dove le persone che avevano almeno un genitore nelle professioni manageriali dispongono, in media, di un reddito del 24% più elevato rispetto a coloro che avevano genitori occupati in professioni prevalentemente manuali. Il vantaggio è del 17% in Spagna, del 15% in Danimarca, del 14% in Italia, dell’8% in Francia. Il livello di istruzione dei genitori ha un effetto sul reddito dei figli variabile da paese a paese. In Italia il titolo di studio dei genitori è particolarmente discriminante: gli individui che a 14 anni avevano almeno un genitore con istruzione universitaria o secondaria superiore dispongono di un reddito rispettivamente del 29 e del 26% più elevato di chi aveva i genitori con un livello di istruzione basso.

Famiglie jobless sono 2,2 milioni
Continuano ad aumentare le famiglie jobless, quelle cioè in cui nessuno ha un lavoro, arrivando nel 2015 a 2,2 milioni. “Gli effetti della crisi sulle condizioni lavorative delle famiglie sono rimarchevoli” si legge nel documento, “le famiglie piu’ fragili, cioè prive di redditi da lavoro, sia monocompomneti sia composto da piu’ persone, sono aumentate passando dal 9,4% del 2004 al 14,2% delle famiglie nel 2015”. L’incremento ha riguardato soprattutto le famiglie giovani. Tra i single gli occupati si riducono da 48,6% del 2004 a 44,7% del 2015 e le occupate salgono da 28,8% a 30,6% nello stesso periodo. Tra le famiglie con piu’ componenti aumentano quelle in cui lavora solo la donna (da 7,2% del 2004 a 10,7%) e diminuiscono le famiglie con piu’ di un occupato (da 55,1% a 50,0%). La situazione è particolarmente difficile nel Mezzogiorno dove le famiglie jobless salgono al 24,5% nel 2015 contro l’8,2% del Nord e l’11,5% del Centro.

Cresce occupazione ma resta sotto i livelli del 2008
Continua la lenta ripresa del mercato del lavoro in Italia: nel 2015 il tasso di occupazione cresce (+0,6% rispetto al 2014) ma resta ancora inferiore ai livelli del 2008 (-2,3%). L’Istat sottolinea che il tasso di occupazione dei giovani tra i 15 e i 34 anni si attesta al 39,2% contro il 50,3% del 2008. Dopo sette anni di aumento ininterrotto, nel 2015 torna a scendere anche in Italia il numero dei disoccupati: il tasso di disoccupazione raggiunge l’11,9% (-0,8 punti percentuali) e i disoccupati si riducono a poco piu’ di 3 milioni (-6,3%, -203 mila unità). è in calo anche il tasso di mancata partecipazione (che comprende disoccupati e inattivi disponibili a lavorare), dal 22,9% del 2014 al 22,5%, pero’ ancora molto sopra il livello medio Ue (12,7%). Sommando i disoccupati e le forze di lavoro potenziali, le persone che vorrebbero lavorare sono 6,5 milioni nel 2015. Nel 2015 gli occupati in Italia sono 22,5 milioni, 186 mila in piu’ sull’anno (+0,8%). Malgrado la crescita sia per metà concentrata nel Mezzogiorno “i divari territoriali rimangono accentuati”: risultano occupate oltre sei persone su 10 nel Centro-nord e quattro su 10 nel Mezzogiorno. L’incremento di occupazione è piu’ forte tra gli uomini (+1,1% rispetto a +0,5%) ma in un confronto intertemporale piu’ ampio mentre le donne superano di 110 mila unità il numero di occupate del 2008, gli uomini sono ancora sotto di 736 mila. Il tasso di occupazione degli uomini sale al 65,5% nell’ultimo anno (+0,8 punti sul precedente) mentre quello delle donne si attesta al 47,2%, +0,3 punti sull’anno ma circa 13 in meno della media Ue. Dopo gli anni della crisi, che aveva colpito in modo particolare la Generazione del millennio (nati fra il 1981 e il 1995), nell’ultimo anno la forte caduta dell’occupazione giovanile si attenua anche in Italia. Il tasso di occupazione dei giovani di 15-34 anni si attesta al 39,2%. Il calo, avviatosi sin dal 2002, soprattutto nelle classi di età 20-24 e 25-29, è andato accentuandosi tra il 2008 e il 2014, quando si assiste a un’impennata anche del tasso di disoccupazione. Nel 2015 sono piu’ di 2,3 milioni i giovani di 15-29 anni non occupati e non in formazione (Neet), di cui tre su quattro vorrebbero lavorare. I Neet sono aumentati di oltre mezzo milione sul 2008 ma diminuiscono di 64 mila unità nell’ultimo anno (-2,7%). L’incidenza dei Neet sui giovani di 15-29 anni è al 25,7% (+6,4 punti percentuali su 2008 e -0,6 punti su 2014). La condizione di Neet è piu’ diffusa tra gli stranieri (35,4%), nel Mezzogiorno (35,3%) e tra le donne (27,1%), specie se madri (64,9%).

Laureati sempre meno occupati
La laurea è sempre meno decisiva per trovare un impiego secondo il rapporto annuale dell’Istat. A tre anni dal conseguimento del titolo, nel 1991 i laureati occupati erano il 77,1%. Il valore è sceso al 72% nel 2015, anno nel quale non cercano lavoro circa il 12,5% dei giovani laureati, quasi il doppio di quelli del 1991 (6,6%). “Quest’ultimo dato – osserva il rapporto – è da leggere insieme al fenomeno della prosecuzione delle attività di formazione e istruzione: nel 2015, infatti, il 78,7% di coloro che dichiarano di non cercare lavoro risultano impegnati in attività quali il dottorato, il master, lo stage o un ulteriore corso di laurea, quando nel 1991 la stessa quota era pari a 59,7%. Sia per le coorti del 2015 sia per quelle del 1991 l’aver conseguito una laurea dei gruppi ingegneristico, scientifico e chimico-farmaceutico si associa a probabilità di occupazione di gran lunga superiori a quelle registrate dai laureati del gruppo letterario, con vantaggi che vanno tuttavia riducendosi: gli ingegneri della coorte 1991 presentano un vantaggio di 12,8 volte rispetto ai laureati nelle materie letterarie, vantaggio ridottosi a 5,1 nel 2015.

Siamo di meno e sempre più vecchi
Le nascite sono al minimo storico dall’Unità e se ancora “resistiamo”, è grazie soprattutto agli immigrati. Questo in sintesi, il quadro che emerge dal rapporto per quanto riguarda le trasformazioni demografiche avvenute in Italia. Al 1° gennaio 2016 la stima è di 60,7 milioni di residenti (-139 mila sull’anno precedente) mentre gli over64 sono 161,1 ogni 100 giovani con meno di 15 anni. Il nostro Paese è tra i più invecchiati al mondo, insieme a Giappone (indice di vecchiaia pari a 204,9 nel 2015) e Germania (159,9 nel 2015). Le nascite hanno toccato un nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia: nel 2015 sono state 488 mila, 15mila in meno rispetto al 2014. Per il quinto anno consecutivo diminuisce la fecondità, solo 1,35 i figli per donna. I decessi hanno invece raggiunto le 653 mila unità, 54 mila in più dell’anno precedente (+9,1%). Novant’anni fa, la dinamica naturale (cioè il saldo fra nati e morti) era il traino per la crescita demografica del Paese. Tra il 1926 e il 1952 i residenti in Italia passarono da 39 a 47,5 milioni, grazie alla forte riduzione della mortalità e alla natalità ancora molto elevata. La vita media aumentò infatti di circa 15 anni: da 52,1 a 67,9 anni per le donne e da 49,3 a 63,9 per gli uomini. Il picco più alto delle nascite arriva nel 1964 quando superano il milione: il baby boom fa crescere il numero medio di figli per donna dai circa 2,3 dei primi anni Cinquanta fino ai 2,70 del 1964. Dalla metà degli anni ’70 la capacità di crescita demografica del Paese si attenua molto, tanto che al censimento del 2001 l’ammontare dei residenti in Italia è poco al di sotto dei 57 milioni rispetto ai 56,5 milioni del 1981. Dagli anni 2000 la popolazione cresce in modo più sostenuto ma solo grazie ai flussi migratori dall’estero che si fanno sempre più consistenti. Al primo gennaio 2016 i cittadini italiani residenti sono 55,6 milioni, i cittadini stranieri 5,54 milioni (8,3% della popolazione totale). La crescente presenza di ragazzi stranieri immigrati o nati in Italia ha quindi mitigato la portata del “degiovanimento”, ossia la progressiva erosione dei contingenti delle nuove generazioni dovuta al calo delle nascite. Dal 1993 al 2014 in Italia sono nati quasi 971 mila bambini stranieri, con un trend di crescita che si è invertito solo negli ultimi due anni. Per stimare la consistenza nel 2015 dei ragazzi con un background migratorio occorre sommare ai nati in Italia – che sono il 72,7% degli stranieri sotto i 18 anni – i minori giunti insieme ai genitori o per ricongiungimento familiare. Nel complesso si arriva a un milione, ma questa cifra è al netto di quanti nel frattempo sono diventati cittadini italiani.

Fino a 30 anni a casa con mamma e papà
Niente da fare, i figli da casa non se ne vanno: nel 2015, rileva l’Istat nel suo Rapporto Annuale 2016, vive ancora in famiglia con il ruolo di figlio o figlia, il 70,1% dei ragazzi di 25-29 anni e il 54,7% delle coetanee (la cosiddetta Generazione del millennio). Percentuali in decisa crescita rispetto a venti anni prima (rispettivamente 62,8% e 39,8%). I giovani di oggi poi ma in generale gli italiani, sembrano decisamente allergici alla “marcia nuziale”, dal momento che il numero dei matrimoni è in calo. La prolungata permanenza a casa di mamma e papà è dovuta a molteplici fattori, tra cui l’aumento diffuso della scolarizzazione e l’allungamento dei tempi formativi, le difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro e la condizione di precarietà, gli ostacoli a trovare un’abitazione. Le principali tappe verso la vita adulta, fa notare l’Istat, sono sempre piu’ posticipate notando il passaggio dalla Generazione della ricostruzione (ossia quella dei nati fra il 1926 e il 1945) alla Generazione di transizione (nati negli anni Sessanta e Settanta). Lo dimostra il fatto che aveva vissuto un evento familiare prima del venticinquesimo compleanno come la prima unione, il primo matrimonio, il primo figlio, fino al 75% delle nate negli anni Quaranta e Cinquanta, il 56,5% di quelle che hanno visto la luce negli anni Sessanta e il 46,6% di quelle degli anni Settanta. E oggi si convola a nozze sempre meno: l’istituto del matrimonio sembra in declino fra le generazioni piu’ recenti (Generazione del millennio e Generazione di transizione). La propensione a sposarsi la prima volta è in forte calo perchè l’evento è posticipato verso età piu’ mature: nel 2014 l’età media al primo matrimonio è arrivata a 34,3 anni per gli sposi e a 31,3 per le spose. Particolarmente esplicativo è il caso delle donne che a 30 anni non hanno ancora lasciato la famiglia di origine, (oltre 2,7 milioni, rappresentano piu’ dei due terzi delle trentenni) cresciute di 48 mila unità fra il 2008 e il 2014. Sono diminuite di circa 41 mila unità le spose alle prime nozze tra 18 e 30 anni. (AGI)