Produzione industriale a -31% rispetto ai livelli pre-crisi, disoccupazione ancora elevata (11,5%), giovani senza lavoro e costretti a emigrare: aumenta il divario dall’Europa che conta
Le ultime stime danno la crescita del Pil italiano, per l’anno 2015, allo 0,8%. Il Paese inverte dunque la rotta, è fuori dalla recessione, ma non è semplice stabilire se il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto. Le previsioni, infatti, nel settembre scorso annunciavano una crescita annuale dell’1%, che di fatto si è ridotta di uno 0,2 per cento nel corso degli ultimi tre mesi. Altri indicatori destano ulteriori preoccupazioni, per le condizioni generali del Paese e in particolare per le dinamiche che interessano la fascia di popolazione più giovane. Sono i dati Eurostat, elaborati dal Ministero dello Sviluppo Economico, a mettere in luce come l’economia italiana faccia fatica a rimettersi in moto, come il Paese sia ancora lontano dalla possibilità di rimettersi a pari con gli standard che poteva vantare nel periodo antecedente la crisi e come, anzi, si stiano accumulando ulteriori ritardi nei confronti dell’Europa che conta.
Basti pensare che il livello della produzione industriale dello Stivale risulta inferiore del 31,2% rispetto ai massimi toccati prima del 2008, quando scoppiò la crisi economica internazionale: rispetto ai minimi toccati nel corso della fase di recessione, l’Italia è riuscita a recuperare circa il 3%. E’ il segnale di un’inversione di tendenza, che tuttavia si risolve in risultati ben lontani da quelli raggiunti dai principali paesi europei, considerando che nello stesso periodo la Germania ha recuperato il 27,8%, la Francia l’8%, la Gran Bretagna il 5,4% e che addirittura la Spagna, una delle realtà più colpite negli ultimi otto anni, è risalita del 7,5%. In sostanza l’industria italiana è tornata a muoversi, ma ancora troppo lentamente, a tal punto che il divario dalle più importanti realtà dell’Eurozona si è addirittura ampliato. Un paradosso che rende la strada ancora lunga e irta di ostacoli e che non consente di intravedere la luce alla fine al tunnel.
Mentre il mondo, a partire dal 2008, è cambiato radicalmente, con la produzione che si è spostata in modo massiccio verso altre aree del globo, l’Italia ha perso terreno e oggi continua ad arrancare. A questo punto appare molto difficile stabilire se e quando il Paese sarà nelle condizioni di tornare ai livelli pre-crisi.
Il governo: “Ingranata la ripresa”
Nel frattempo il governo Renzi non si scompone e predica ottimismo.
“L’Italia ha ingranato la ripresa” — ha fatto sapere il Ministero dello Sviluppo Economico attraverso una nota. “Emergono una serie di segnali positivi di ripresa dell’economia, con particolare riferimento alla fiducia di famiglie e imprese, ai consumi e all’occupazione. La produzione industriale continua a crescere — prosegue il comunicato – così come l’utilizzo della capacità produttiva”.
Il governo fa il suo mestiere ed è anzi suo dovere affermare di credere nella ripresa e fornire speranze ai cittadini, ma se i dati sulla fiducia dei consumatori evidenziano un effettivo miglioramento, quelli sull’occupazione sono ancora ampiamente insoddisfacenti: è vero, infatti, che nel terzo trimestre del 2015 la disoccupazione è scesa all’11,5%, ma non si può guardare solo all’interno del proprio recinto, ignorando che la disoccupazione è al 5,2% nel Regno Unito, al 4,5% in Germania e al 10,8% in Francia, nonostante i cugini d’Oltralpe siano alle prese con la peggiore performance degli ultimi 18 anni. Peggio ancora l’occupazione giovanile, che riguarda i cittadini tra i 15 e i 24 anni: in Italia è al 15%, ben lontana dal 48,8% del Regno Unito e dal 43,8% della Germania, ma anche dal 28% della Francia e dal 17,7% della Spagna. E il trend è in ulteriore peggioramento, se è vero che rispetto ai minimi degli ultimi anni, l’occupazione giovanile italiana ha recuperato appena lo 0,9%, contro il 2,7% della Germania, il 4,2% del Regno Unito e l’1,9% della Spagna.
Troppi giovani senza lavoro
La questione giovanile assume particolare rilievo, poiché è chiaro che le nuove generazioni rappresentano il futuro di ogni Paese e se il dato che vede troppi giovani italiani esclusi dal mercato del lavoro appare sconfortante a livello quantitativo, notizie ancora più deprimenti arrivano sul piano qualitativo. Sempre l’Eurostat indica come l’Italia sia penultima in Europa per l’occupazione dei suoi laureati a 3 anni dal conseguimento del titolo accademico: solo il 52% di questa fetta di giovani italiani ottiene un impiego, contro una media dei 28 Paesi dell’Unione Europea che supera l’80%. Appare significativo che la Grecia, virtualmente in default, sia l’unico Paese a fare peggio dell’Italia. Nel complesso le persone tra i 20 e i 34 anni, che risultano occupate dopo avere completato il proprio percorso formativo, in Italia rappresentano appena il 45%, contro una media europea del 76%. Sono i sintomi di un Paese sclerotizzato, che ha bisogno di un profondo rinnovamento politico, burocratico, sociale e culturale.
La crisi, infatti, ha colpito duramente i giovani italiani, ma può spiegare solo in parte il fenomeno, se è vero che tra il 2008 e il 2014 la media dei giovani occupati, a tre anni dal conseguimento del titolo di studio, nell’Unione europea è scesa di otto punti, mentre in Italia è crollata di oltre venti punti (dal 65,2% al 45%). Le conseguenze più immediate sono la sfiducia dei giovani italiani nel sistema formativo (i giovani laureati, tra i 30 e i 34 anni, sono il 23,9% in Italia e il 37,9%, in media, nel resto d’Europa) e il ritorno dell’emigrazione.
Il ritorno dell’emigrazione
Non è un caso che nel 2014 oltre 90 mila italiani abbiano trasferito la loro residenza all’estero, per un incremento del 30,7% rispetto al 2012. Ancora più significativo è che oltre la metà dei nuovi emigrati italiani sia rappresentata dagli under 40: in sostanza, in Italia, per ogni mille persone al di sotto dei 40 anni, ce ne sono 3,3 che lasciano il Paese. Niente di male se fosse una libera scelta. In realtà, in molti casi, si tratta dell’unica strada percorribile per rendersi indipendenti e condurre un’esistenza dignitosa.
Secondo uno studio realizzato sulla base di dati Istat, gli emigrati italiani dei nostri giorni non partono più, come un tempo, soltanto dal Sud Italia, dai piccoli centri e dalle aree periferiche e disagiate: le città che registrano in assoluto il maggior numero di espatri, da parte di giovani tra i 18 e i 39 anni, sono Milano, Roma, Torino e Napoli; mentre i dati sul numero di trasferimenti degli under 40 all’estero, in rapporto alla popolazione della stessa fascia di età, vedono in cima alla classifica tutte località appartenenti a quello che un tempo era considerato il ricco Settentrione, ovvero Bolzano, Imperia, Trieste, Pavia e Como. I giovani italiani, che lasciano il proprio Paese per inseguire un lavoro, una passione o una nuova carriera, trovano nuove opportunità soprattutto in Europa: le mete principali, in ordine di espatri, sono infatti Regno Unito, Germania, Svizzera, Francia, Stati Uniti e Spagna.
Consapevolezza e ottimismo di facciata
Nel confronto internazionale l’Italia, rispetto ai principali Paesi UE, sconta una crisi più lunga e più dura che altrove – ammette il Ministero dello Sviluppo Economico. La ripresa, che nella maggior parte degli Stati membri UE è partita e si è consolidata dal 2009, in Italia si è manifestata compiutamente solo tra il 2014 e il 2015. “Tuttavia i dati più recenti mostrano che il recupero è finalmente scattato, anche grazie alle misure assunte dal governo per favorire investimenti e occupazione — è scritto ancora nella nota. Restano naturalmente problemi di lunga durata che il governo, a partire dalle misure della legge di stabilità, sta finalmente affrontando”.
Non solo ottimismo di facciata, dunque, ma anche realismo e onestà intellettuale. Il governo Renzi si mostra consapevole dei problemi e assicura il massimo impegno per risolverli. Solo il tempo dirà se sarà in grado di riuscire nell’impresa. Quel che appare chiaro, però, è che la questione giovanile non gode ancora della necessaria considerazione. I giovani, con le loro energie, le loro intelligenze e le loro competenze, sono la principale risorsa sulla quale un Paese ha il dovere di investire. L’Italia, al contrario, ogni anno diventa più vecchia e assiste senza muovere un dito alla continua emorragia delle proprie forze migliori e all’inaridimento formativo e culturale dei propri giovani. Appare del tutto inutile parlare di futuro, sviluppo e innovazione, se non si prende davvero coscienza di tale problema.