Comunità Italiana

La felicità del gioco

Perché il gioco piace più del lavoro?

Oscar Wilde ha giustamente osservato che “noi viviamo nell’epoca del troppo lavoro, in cui la gente è così laboriosa da diventare stupida”. Da una parte si lavora troppo, dall’altra si affronta il lavoro in modo noioso e serioso, come se fosse ancora un castigo biblico e non un gioco creativo. A chi lo invitava a riposarsi, Rubinstein rispondeva: “Riposarsi? Riposarsi di che? Io, quando voglio riposarmi, viaggio e suono il piano”. Rivalutare il lato giocoso della nostra vita, significa liberare il fanciullo che è dentro di noi, che merita di essere vezzeggiato perché si prenda cura della nostra felicità.
Un’antica sentenza Zen diceva: “Chi è maestro dell’arte di vivere distingue poco fra il suo lavoro e il suo tempo libero, fra la sua mente e il suo corpo, la sua educazione e la sua ricreazione, il suo amore e la sua religione. Con difficoltà sa cos’è che cosa. Persegue semplicemente la sua visione dell’eccellenza in qualunque cosa egli faccia, lasciando agli altri decidere se stia lavorando o giocando. Lui, pensa sempre di fare entrambe le cose insieme”. Nel mondo rurale il contadino, l’artigiano, il libero professionista non riuscivano a separare il lavoro dalle faccende domestiche e dal gioco. Essi lavoravano nello stesso luogo in cui vivevano, insieme alla propria famiglia, intrecciando ogni tipo di attività.
Poi nell’Ottocento si diffuse la fabbrica moderna con le sue macchine possenti, rumorose, pericolose e si rafforzò la burocrazia con il suo esercito di funzionari accentrati nei ministeri. Il lavoro in azienda, si separò dal tempo libero e dal gioco, relegati in casa e nei luoghi di svago. Henry Ford, inventore della catena di montaggio, scrisse nella sua autobiografia: “Quando lavoriamo dobbiamo lavorare. Quando giochiamo dobbiamo giocare. Non serve a nulla cercare di mescolare le due cose. L’unico obiettivo deve essere quello di svolgere il lavoro e di essere pagati per averlo svolto. Quando il lavoro è finito, allora può venire il gioco, ma non prima”.
All’inizio del Novecento, quando Ford scrisse queste cose, la stragrande maggioranza dei lavoratori svolgeva lavori in serie, stupidi e ripetitivi, adoperando le mani molto più del cervello. Per un manovale della Fiat o per un minatore della Ruhr durante il lavoro c’era ben poco da giocare.
Poi, man mano, alcuni lavori di natura prevalentemente fisica, pericolosi e noiosi furono delegati ai robot e ai computer; altri furono delocalizzati nel Terzo Mondo. Le nostre fabbriche si svuotarono degli operai mentre i nostri uffici si riempirono di professionisti e di manager. Oggi, negli Stati Uniti come in Brasile, si riesce a produrre beni e servizi senza fatica fisica, i lavoratori intellettuali rappresentano ormai i due terzi di tutta la popolazione attiva, i loro compiti sono flessibili, creativi, intraprendenti, il loro lavoro mentale si confonde con lo studio. Il professionista, lo scienziato, il giornalista, il professore, l’artista possono appassionarsi al proprio lavoro fino a svolgerlo come se fosse un gioco, fino a confondere lavoro e vita in tutte le ore del giorno. Per loro, uomini del ventunesimo secolo, vale nuovamente la massima Zen di mille anni fa.
Per tutti gli altri lavoratori, per quel terzo che ancora svolge mansioni fisiche, ripetitive, deprivate di intelligenza, resta comunque la consolazione che la vita si è allungata mentre il lavoro si è ridotto e potrebbe ulteriormente ridursi. Oggi un giovane di venti anni ha davanti a sé 80.000 ore di lavoro, 220.000 ore da dedicare alle attività domestiche, al sonno e alla cura del proprio corpo, 230.000 ore da dedicare totalmente al tempo libero.
Man mano che il lavoro scende dal trono su cui lo aveva collocato la società industriale, cresce l’importanza del gioco, dello svago, del turismo, del riposo, sempre più rivalutati nella nostra società postindustriale.
Ma perché il gioco piace più del lavoro? Perché il gioco produce allegria ed emozioni; perché consente di rilassarci, sbarazzandoci delle energie superflue; perché, giocando, possiamo sfoggiare abilità, coraggio, bellezza, forza e cultura; perché, attraverso il gioco, ci alleniamo e sfidiamo noi stessi, plachiamo la nostra ansia di dominio, raggiungiamo premi e stima, compensiamo la monotonia e lo stress, esprimiamo la nostra  personalità. Per sua natura il gioco è finzione, mistero, presagio, gara, emulazione, tensione, distensione, disinteresse, cavalleria, estetica, gentilezza, ritmo, armonia, passionalità, evasione, seduzione, creatività.
Beaudelaire diceva che non si è morti fin quando si ha voglia di sedurre e di essere sedotti. E il grande filosofo russo Alexandre Koyrè aggiungeva: “Non è dal lavoro che nasce la civiltà: essa nasce dal tempo libero e dal gioco”.