{mosimage}Finita la censura imposta di Israele, meno controlli di Hamas: i palestinesi raccontano il loro dramma
GAZA – E’ un momento unico questo per i giornalisti nella striscia di Gaza. Dopo mesi e mesi di chiusura imposta dagli israeliani e di censura sui media locali da parte delle autorità di Hamas, la regione è aperta. La popolazione sembra più incline a parlare del solito. C’è scoramento, rabbia, dolore, confusione. E soprattutto torna a galla l’antica guerra fratricida tra Fatah e Hamas. L’autorità di Hamas è messa in dubbio. Solo nelle ultime 24 ore i suoi poliziotti armati, informatori e miliziani sono tornati a farsi vivi per le strade. E comunque tendono a restare in disparte, meno intrusivi di prima. L’emergenza bombardamenti è al massimo. E le priorità del dopoguerra trionfano sul resto. Dunque si può lavorare. I giornalisti possono muoversi, raggiungere zone che erano sbarrate sino a poco fa.
SFOGHI CONTRO LA GUERRA – Non è difficile sentire pareri di fuoco contro Hamas, contro le debolezze e la corruzione di Abu Mazen, contro il fatto che questa è stata una guerra stupida, inutile, perdente in partenza. «La guerra si fa quando si può vincere. Altrimenti perché battersi?» dicevano ieri scorati un gruppo di pescatori. In uno dei caffè più frequentati dagli studenti dell’Università Islamica sostenevano di essere vittime di Hamas e dei Fratelli Musulmani, sostenevano che ancora una volta i palestinesi sono stati vittime di giochi decisi a tavolino altrove. E’ possibile cogliere il mutare delle opinioni quasi in tempo reale. Nei primi giorni della guerra sembrava prevalere il consenso. La popolazione, esasperata da oltre due anni di embargo e chiusura imposta da Israele (con la collaborazione egiziana), vedeva nel tiro di missili sul Negev un più che legittimo gesto di rivolta.
GLI EFFETTI DELLA PUNIZIONE COLLETTIVA – «Meglio morire subito combattendo, che strangolati lentamente dalla chiusura israeliana. Gaza è diventata una gigantesca prigione a cielo aperto», dicevano in tanti. Anche i più critici con Hamas tendevano comunque a plaudire la vendetta armata. Poi però queste opinioni sono cambiate. Il massiccio bombardamento israeliano è stato terrificante. Un vera operazione di punizione collettiva anche contro i civili, che in certi casi rasenta il crimine di guerra. Il messaggio è stato chiaro, evidente per tutti: dovete assolutamente bloccare Hamas, sappiate che qualsiasi zona dove operano i loro miliziani, specie quelle da dove sparano i missili, potrà venire colpita e rasa al suolo. E’ vero. Quasi sempre, specie nelle zone urbane di frontiera, Israele ha notificato la popolazione con qualche ora di anticipo che avrebbe bombardato. Lo ha fatto con i volantini dal cielo (come avveniva in Libano nel 2006), ma anche utilizzando la rete telefonica locale mandando sms sul sistema Jawwal. Pure, poche ore dopo il bombardamento è stato letale, le incursioni di carri armati e squadre speciali dell’esercito brutali. Durante l’azione militare Israele non ha guardato in faccia a nessuno. Ne abbiamo fatto le spese anche noi, quando con la nostra macchina a metà gennaio siamo stati presi di mira da una pattuglia della fanteria nella zona di Netzarim. Ci hanno sparato contro per due ore, pur vedendo che, dopo le prime raffiche, noi non rispondevamo affatto al fuoco, anzi gridavamo che eravamo giornalisti da dietro una duna. Solo una lunga serie di telefonate con i portavoce militari a Gerusalemme, mentre ancora a Netzarim ci sparavano contro, ha permesso infine la nostra fuga. Ma cosa sarebbe successo a una qualsiasi famiglia palestinese? Quel fatto ci ha fatto capire in diretta la logica delle regole di ingaggio israeliane in questo conflitto.
Fonte: www.corriere.it