Comunità Italiana

La ragazza che adottò la Beat Generation

{mosimage}Da Hemingway ai minimalisti, portò l’America in Italia Fu la «sorella maggiore» di Kerouac, Corso, Ginsberg

 

Si è spenta ieri, in una clinica privata di Milano, Fernanda Pi­vano. Nata a Genova, aveva compiuto 92 anni il 18 luglio. Scrit­trice, traduttrice e giornalista per il «Corriere», fece conosce­re all’Italia la grande narrativa americana. «Sapevo che non ce l’avrebbe fatta e sono contenta di esserle stata vicina in que­sti ultimi giorni — ha detto Dori Ghezzi, che le era accanto insieme con Enrico Rotelli —. Solo poche settimane fa aveva­mo cantato ancora 'Bocca di rosa'». Da un mese aveva conse­gnato a Bompiani la seconda parte dei «Diari». I funerali ver­ranno celebrati venerdì alle 11 a Genova, nella basilica di San­ta Maria Assunta di Carignano, da don Andrea Gallo. Ieri an­che il presidente Napolitano ha espresso il suo cordoglio.

La cartolina era arrivata da Cortina. Ernest Hemingway in persona la voleva conoscere e la invitava a rag­giungerlo. Era il 1948, Fernanda Pi­vano aveva già tradotto l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e in quei mesi stava lavorando su Addio alle armi di He­mingway. Lui, «Papa», come lo chiamavano quelli che lo conoscevano, era in Italia.

Arrivato con la moglie Mary Welsh, lo scrittore americano stava a Venezia, un po' per rivedere i luoghi dell'altra guerra, dove si era trovato come autista della Croce rossa nella primavera del 1918, un po' per andare a sparare alle anatre in laguna. Grandi bevute all'Harry's Bar dell'amico Cipriani, battute di caccia sui barchini, poi ogni tanto una fuga a Cortina d'Ampezzo. Fernanda Pivano, Nan­da per tutti, amava molto raccontare quell'in­contro. «Lì per lì non ci avevo creduto, poi mi convinsero che era vero quell'invito. Pre­si il treno, da Torino a Cortina fu un viaggio interminabile, arrivai la sera tardi. Mi presen­tai all’albergo, Papa era ancora a tavola con degli amici. Mi vide, si alzò, mi venne incon­tro e mi abbracciò. Mi chiese: 'Che cosa ti hanno fatto i nazi?' Aveva saputo che ero sta­ta fermata dai tedeschi. Mi tenne a lungo ab­bracciata. Forse mi faceva la corte. Ma io a queste cose non ci pensavo proprio. Certo, era alto, grande, bellissimo. Forse saremmo potuti finire a letto, e invece niente. Che stu­pida ero». E tutte le volte che ripeteva il rac­conto, Nanda si dava uno schiaffo in testa.

Dopo aver resistito al fascino di Hemin­gway, la Nanda sarebbe pure passata inden­ne attraverso la frequentazione dei poeti e scrittori della Beat Generation. Mai nemme­no uno spinello, diceva, niente alcol, funghi e peyote, Lsd e tutto il resto, nemmeno a pensarci. Quando era arrivata per la prima volta in America nel 1956, aveva subito capi­to la novità rappresentata da questi cercato­ri di nuovi stati di coscienza. Che sapevano modulare prose e versi sui battiti del be-bop, il jazz esistenzialista di Charlie Parker, si mettevano sulla strada per dilata­re i confini dell’immaginario, aiutati in que­sto dai pesanti sussidi degli allucinogeni. Per loro — Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti — Nanda fu una sorta di affettuosa sorella mag­giore, una vice-madre saggia e comprensi­va. Fu lei a tradurre i loro libri, a battersi per­ché opere come Sulla strada e Urlo fossero pubblicate da noi. Ai poeti, soprattutto, ave­va dedicato i suoi sforzi maggiori, compo­nendo l’antologia Poesia degli ultimi ameri­cani (Feltrinelli) con cui si offriva ai lettori italiani un tesoro di novità. Li ospitava nella sua casa a Milano quando passavano di qua (Nanda era ancora sposata con l'architetto Ettore Sottsass), li aiutava, si faceva spiega­re il senso e le allusioni della loro lingua da iniziati. Il tutto però senza mai passare al consumo della roba, serbandosi saggia e in ordine, senza pregiudizi. In una rara intervi­sta televisiva con Kerouac realizzata per la Rai, la vediamo chiedere allo scrittore: «Jack, dimmi, ma perché non sei felice?» E lui, gonfio di alcol, gli occhi opachi, ormai avviato alla fine, non sa darle nessuna rispo­sta.

Cresciuta nella Torino antifascista (nella sua decisione di studiare letteratura ameri­cana fu decisiva l’influenza di Cesare Pave­se), Nanda scopriva nei suoi amici america­ni una lezione di politica molto meno ideo­logica di quella che si usava da noi. profeti del pacifismo anni Sessanta, pa­dri della contestazione contro l'intervento militare americano nel Vietnam, Ginsberg e gli altri le regalarono un senso dell'impegno globale sconosciuto in Italia. Tanto da indur­la ad avvicinarsi sempre di più alle posizioni dei radicali.

Sognava, con loro, la rivoluzione dei fio­ri: nel 1993, ripubblicando l'antologia L’al­tra America (Arcana) uscita originariamen­te nel 1971 da Lerici, ricordava la fine del so­gno, il rapido cambiamento all’indomani del Sessantotto, e si chiedeva dov’erano fini­ti i fiori.

Sempre a fianco di Ginsberg nelle sue nu­merose tournée italiane (sul palco, con un triangolo battuto ritmicamente, sono in molti a ricordarla mentre salmodiava «Use dope, don’t smoke», lei che non sapeva nemmeno come si rolla uno spinello), Nan­da negli anni Settanta comincia a trovarsi spiazzata da un'industria culturale inguari­bilmente conformista. Le sue splendide traduzioni (Masters, He­mingway, Francis Scott Fitzgerald e i Beat naturalmente) erano dei long sellers. Ma per il resto veniva guardata con crescente in­differenza. Comincia da lì un nuovo viaggio, alla ricerca di nuovi pubblici, nuovi audito­ri. Vennero così i festival di poesia, la sala fumata del Macondo a Milano, il locale inti­tolato al luogo mitico di Gabriel García Már­quez. Dei dibattiti accademici, degli incari­chi universitari o editoriali, a lei non impor­tava nulla. Fra Milano e Roma, con frequen­ti viaggi in America sempre in cerca del nuo­vo, Nanda prova a scrivere romanzi. Ma so­prattutto si dedica al giornalismo, intervi­stando per il «Corriere della Sera» scrittori e protagonisti della cultura statunitense. È così che negli anni Ottanta conosce e fa co­noscere una nuova covata di scrittori, i Mini­malisti: David Leavitt, Brett Easton Ellis, Su­san Minot e soprattutto l'adorato Jay McIner­ney. E ancora una volta Nanda è per loro consigliera, amica, compagna di strada. Confidente pure: in mezzo a guai privati e sentimentali, McInerney ricorreva spesso a lei. Ma tutto questo non bastava più. Malattie e problemi economici non la fer­mano. Fra i giovanissimi ritorna la fascina­zione per la Beat Generation, e lei si ritrova in prima fila, testimone e protagonista dei bei momenti. Per questo, negli anni Novan­ta, diviene una figura di culto per le nuove generazioni, un oggetto di venerazione, un indispensabile riferimento. Nasce qui l’ulti­ma sorprendente metamorfosi della grande Nanda: adesso è la musa dei rockers italiani delle ultime generazioni, personaggi come Ligabue, Jovanotti e Morgan dei Bluvertigo (noto fra l'altro per una storia con l'attrice Asia Argento). Sul palco dei concerti rock o nei video, ecco dunque Nanda, felice e diver­tita, come una volta quando accompagnava Ginsberg.

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L'entusiasmo era lo stesso, e no­nostante l’età e gli acciacchi la passione c’era ancora, intatta e fresca. Fra le tante cose che ci lascia, forse il be­ne più prezioso è l’immenso archivio, raccol­to in una Fondazione sponsorizzata da Be­netton. Ci sono lettere, cartoline, carte, testi­monianze di oltre cinquant’anni di storia e letteratura americana. Oggi quel patrimo­nio immenso è un oggetto di studio impre­scindibile per chi si occupa degli anni in cui Nanda fu protagonista. Ma tante volte, qual­che decennio fa, erano Ginsberg e gli altri che venivano a Milano per frugare tra quelle carte per ricostruire momenti ed episodi del passato di cui avevano perso traccia. Lei, Nanda, conservava tutto. Fra le poche cose perdute in un trasloco c’erano tante lettere di Paul Bowles. Quan­do il film di Bertolucci Il tè nel deserto lo riportò in auge, Nanda si mise a cercare le cose dello scrittore. Invano. L’unica cosa che trovò era una cartolina con un isolotto nel Pacifico: Bowles le scriveva per dire che voleva lasciare la sua residenza marocchina di Tangeri e comprarsi quel piccolo Paradi­so. E Nanda la mostrava felice.
 
Fonte: www.corriere.it