Il 12 novembre 2003, il più grave attacco alle truppe italiane dalla fine della Seconda Guerra: muoiono 19 connazionali, tra civili e militari, e 9 cittadini iracheni
Sono passati tredici anni esatti dalla strage di Nassiriya, il più grave attacco alle truppe italiane dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Diciannove morti italiani, tra civili e militari, e nove iracheni. Una tragedia destinata a restare senza colpevoli e senza verità, dal momento che non c’è alcun fascicolo aperto, in quanto tutte le inchieste sono state archiviate. È il 12 novembre del 2003, ore 8.40 italiane, quando un’autocisterna blu irrompe nella Base Maestrale di Nassiriya, città irachena a maggioranza sciita, una delle due sedi dell’operazione Antica Babilonia — la missione di pace italiana in Iraq, avviata qualche mese prima con la partecipazione di 3.000 uomini, 400 dei quali appartenenti all’Arma dei Carabinieri. L’autocisterna prova a forzare il posto di blocco, ma viene bloccata da un carabiniere ed esplode all’altezza del cancello d’ingresso. Il boato è impressionante. Gran parte dell’edificio principale viene distrutto e crolla su se stesso, mentre viene gravemente danneggiata una seconda palazzina, dove aveva sede il comando. Nel cortile, molti mezzi militari prendono fuoco. In fiamme anche il deposito delle munizioni. Perdono la vita 12 carabinieri della Multinational Specialized Unit e 5 militari dell’Esercito, che facevano da scorta alla troupe del regista Stefano Rolla, che si trovava a Nassiriya per girare uno sceneggiato sulla ricostruzione da parte dei soldati italiani. Muoiono anche 2 componenti di una troupe cinematografica che stava lavorando ad un film e 9 cittadini iracheni. Oltre 20 i feriti, tra militari e civili. Il bilancio sarebbe potuto essere ancora più catastrofico se il carabiniere Andrea Filippa, morto nell’attentato, non fosse riuscito, almeno in parte, a fermare l’autocisterna con a bordo i due attentatori suicidi.
Il giorno successivo, l’allora Ministro della Difesa, Antonio Martino, accorre sul posto e commenta: “Quel cratere è il nostro Ground Zero”. È ancora vivo il ricordo dell’attentato alle Twin Towers di New York due anni prima. Nella camera ardente, 24 ore prima del rito funebre, l’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi abbraccia a lungo il padre del maresciallo Alfonso Trincone. Il Paese è commosso e partecipe. La folla riserva uno straordinario tributo ai militari caduti, con una coda infinita davanti al Vittoriano. Al funerale, nella Basilica di San Paolo, c’è anche il maresciallo Marilena Iacobini, unica donna del contingente, rimasta ferita nell’attentato. “Mi sono buttata a terra d’istinto e mi sono salvata. Mi sposerò, avrò dei figli e ad uno di loro darò il nome del maresciallo Filippo Merlino, che è morto proprio accanto a me”, racconta. Il maggiore Claudio Cappello è un altro sopravvissuto: “La mia stanza non c’era più, mi sono affacciato in una crepa e ho visto i morti per terra, mentre sentivo le urla del maresciallo Iacobini”.
Successivamente vengono aperte due inchieste. L’Esercito chiede una consulenza al generale Antonio Quintana, secondo il quale sistemare la base al centro della città e senza un percorso obbligato a zig-zag per entrare all’interno di essa è stato un errore. L’altra inchiesta, aperta dalla procura di Roma, punta ad individuare gli autori del gesto: un lavoro non facile, condotto in un territorio straniero, in condizioni di grande instabilità. Gli unici risultati apprezzabili hanno a che vedere con la dinamica dell’attentato: a scoppiare è stato un camion cisterna che viaggiava con un quantitativo stimato tra i 150 e i 300 chili di tritolo, mescolato a liquido infiammabile. I sospetti si indirizzano verso Abu Mus’ab Al-Zarqawi, che avrebbe organizzato l’atto terroristico con l’appoggio di estremisti sunniti. Un’altra pista porta ad una cellula terroristica libanese vicina ad Al-Qaida. Entrambe le ipotesi, ad ogni modo, si scontrano con il muro delle difficoltà investigative e l’inchiesta viene archiviata. Assolti con formula piena i tre comandanti italiani, inizialmente coinvolti nell’inchiesta. Nel decennale della strage, il maresciallo dei carabinieri Riccardo Saccotelli, in congedo a causa delle ferite riportate nell’attentato, si lascia andare ad uno sfogo: “Lo Stato non ha fatto nulla per noi. Non ho voluto la medaglia al valore militare, perché quella medaglia è un’offesa alla mia dignità”.