Tra le macerie del centro con una vittima della tragedia. "Chi ha vissuto qui sa che le casette delle new town non possono essere un'alternativa"
L'AQUILA – Si guarda intorno, come se avesse perso qualcosa. "Ecco, qui mancano i tavolini. A quest'ora non si passava, in via Cavour. C'erano gli studenti che si facevano l'aperitivo o una birra. C'erano chiasso, belle facce, allegria. I bambini uscivano dal teatro San Filippo, dove la compagnia l'Uovo presentava 'A teatro con mamma e papà'". Ci sono ancora le locandine che annunciano "Le scarpette di cristallo". Al bar Cavour ci sono bicchieri sul bancone, le bottiglie mezze piene. Giustino Parisse, il giornalista de Il Centro che è diventato un simbolo di una città, L'Aquila, che non accetta di essere abbandonata, torna a fissare le pietre spezzate. "Ecco, guarda quel manifesto: "Premio Scenario 2009. 1-2-3 aprile". Poi più nulla. Anche qui la vita si è fermata un anno fa". Quando Giustino parla di se stesso, del dolore suo e di sua moglie Dina, abbassa una voce che è già un sussurro. "Al teatro ci portavo i miei figli Maria Paola e Domenico, quando erano piccoli". Se ne sono andati la notte della scossa, nella casa di Onna, assieme al nonno, anche lui chiamato Domenico.
Il dolore oggi deve restare dentro. "Vorrei raccontare a chi magari non è mai stato a L'Aquila com'era la nostra città. Ci sono persone che dopo avere visto le new town in televisione dicono: che belle. Se hai vissuto a L'Aquila, non puoi dire una fesseria simile. Questa luce, questi colori, queste pietre… Io ci ho lavorato vent'anni, via XX settembre numero 15, dove c'è la redazione del Centro. Ero orgoglioso di vivere qui gran parte della mia giornata e ancor più orgogliosi erano gli abitanti del centro storico. Sì, orgogliosi, anche se nelle telefonate di quei disgraziati nella notte del 6 aprile, di colpo siamo diventati 'poveretti'". Giustino Parisse racconta la città come fosse casa sua. "Partiamo da qui, i Quattro Cantoni, che era il posto dove ci si dava appuntamento". Ora c'è il "muro del pianto" con appese le chiavi di case che forse non saranno mai riaperte. Si arriva da corso Vittorio Emanuele, con i portici del passeggio. "A fine Ottocento, per costruire quello che era il nuovo centro direzionale della città, tirarono giù un grande convento francescano, nel quale morì San Bernardino da Siena. Si era appena fatta l'unità d'Italia, c'era un forte spirito anticlericale…".
Corso Umberto I, verso piazza Palazzo. Qui città e Chiesa fanno la pace. "Il 23 agosto, quando inizia la Perdonanza, è il sindaco della città, di destra o sinistra che sia, che accende la miccia che fa esplodere i fuochi artificiali. Ed è difficile che qualche politico non si faccia vedere a Collemaggio, per farsi perdonare i peccati". Al centro della piazza, la statua di Sallustio. "È l'unico aquilano che non è scappato dal centro. Adesso chi riesce ad arrivare qui lo saluta e gli dice: stai lì, aspetta, ci vediamo presto". Il terremoto non ha distrutto solo le case. "Ecco, quella è la biblioteca provinciale, con incunaboli e manoscritti medioevali. Quella finestra aperta al vento mi fa stare male. Sono ancora lì, i documenti che raccontano la nostra storia". La piazza è coperta di macerie. "Questa era anche la piazza della politica. La Provincia da una parte, il Comune dall'altra. I comizi si facevano qui". Adesso c'è un silenzio quasi assoluto. "Mezz'ora dopo il tramonto l'orologio della torre suonava 99 tocchi. Novantanove come i 99 castelli della città, le 99 cannelle della fontana, le 99 chiese, le 99 fontane… Quasi tutte leggende, in verità. Ma i tocchi del tramonto erano un appuntamento. C'erano le panchine, per chi voleva aspettarli seduto. Da quasi un anno, nessun rintocco".
Rimbombano i passi sui ciotoli levigati da milioni di passi. "Quando arrivavano gli amici li portavo qui, in via Roma, in piazza San Domenico… Da certi vicoli si vede il Gran Sasso. C'è una luce che incanta. Ma come si fa a dire che le casette di legno e i palazzi delle new town possono essere un'alternativa? Solo chi non conosce gli aquilani può essersi stupito di vedere più di seimila persone alla manifestazione delle carriole. Io tante persone a una manifestazione qui all'Aquila non le avevo mai viste. Ho capito poi perché: non era una manifestazione. Era un incontro fra cittadini e vicini di casa, fra persone che hanno voluto dire: siamo qui, nella nostra città. E nessun pazzo potrà dirci: l'Aquila non ci sarà più". Fanno male i rifiuti lasciati nelle strade, accanto alle macerie. Ci sono televisori, libri, medicine, poltrone… "È come trovare pattume nel salotto di casa. È la vita di noi aquilani che viene buttata via. Con tutti questi puntellamenti, L'Aquila oggi è una città con le stampelle, ma purtroppo non è ancora in convalescenza. È una città ferita in attesa di essere risanata".
Giù verso la prefettura, con quella scritta spezzata, "Palazzo del governo", che ha fatto il giro del mondo. Ora la scritta è stata raddrizzata ma il secondo piano è scomparso. Ancora intatta la specchiera della camera da letto del prefetto, che per fortuna se n'era andato il 30 marzo e ancora non era stato sostituito. Il posto di lavoro, in via XX Settembre. Una finestra aperta, dietro c'è un telo di plastica. "La mia scrivania è lì sotto. "Il Centro" non ha portinai o segretarie. La gente entrava quando voleva. Anche adesso è così, solo che i lettori devono arrivare alla casetta di legno che abbiamo montato a Coppito. Per il caffè c'era un bar qui a venti metri ma se cercavi notizie si doveva andare al bar del Grand Hotel, a cento metri. Qui si incontravano i politici e i maggiorenti della città. Dieci minuti lì, a vedere chi era con chi, e trovavi più notizie che in tre ore al telefono". C'è anche via delle Bone novelle, vicino a San Marco. "Forse è un'altra leggenda. Un ragazzo arrivò di corsa in questa strada, gridando "bone novelle, bone novelle" perché gli aquilani avevano sconfitto Fortebraccio, nel 1424. Una prima "bona novella" l'abbiamo annunciata noi, domenica: siamo riusciti a rialzare la testa. Abbiamo fatto capire a tutti che la nostra città, anche con le stampelle, ce la teniamo stretta".
Fonte: www.repubblica.it