Comunità Italiana

L’uomo che non dice bugie

{mosimage}Andreas Ferrarese, il ministro consigliere, ovvero il “numero due” come si definisce, è l’ultimo acquisto dell’Ambasciata italiana a Brasília. Un uomo pragmatico che vanta una lunga esperienza nella gestione di crisi e in materia economica

È arrivato nel gigante sudamericano il primo settembre 2011 con sua moglie Lucia e le sue due bambine di 4 e 1 anno, nate, la primogenita Sofia, a Roma, e l’altra, Serena, a Beirut.
Nato in Germania perché suo padre era professore di filosofia e teologia all’Università di Tubinga (vicino a Stoccarda), e in quegli anni era anche assistente dell’allora Professor Ratzinger, dalla Germania si è trasferito con la sua famiglia a Napoli, poi in Calabria, in Friuli e infine a Venezia, sua città di origine, che vanta una lunga tradizione di mercanti e marinai. 
— Di formazione mi considero più vicino all’Europa del Nord, però credo che la cultura latina sia una componente essenziale e importantissima perché mi dà più vita, più fantasia, più anima. Essere metà tedesco e metà italiano è un buon bilanciamento perché se si uniscono, i risultati sono migliori — racconta riassumendo il suo carattere pragmatico e la sua passione per la vita.
Dopo aver studiato Lingue Orientali ed Economia finanziaria a Venezia, Ferrarese ha iniziato la carriera diplomatica nel 1994. Confessa che è difficile adattarsi in tutti questi spostamenti alle diverse realtà, ma “è anche la parte più bella di questo lavoro. Uno ha sempre delle sfide nuove”. 
Il primo incarico è stato I rapporti economici tra Italia e Asia. 
— Seguivo tutto: dall’India, Cina, Giappone. Erano anni interessantissimi perché l’Asia stava decollando e l’Italia doveva conquistare un posto economico rilevante in questi paesi — spiega il ministro consigliere.

ComunitàItaliana – Di cosa si occupava in questo primo incarico? Quali erano le sue funzioni?
Andreas Ferrarese – Uno dei compiti era quello di scrivere e presentare rapporti economici sull’Asia al Ministerio degli Esteri che servivano per raffrontare lo scambio commerciale tra l’Italia e gli altri paesi e cosí valutare gli interessi nazionali. Era un’attività molto importante perché il governo si basava sui nostri dati. La seconda attività era quella di organizzare le visite politiche nei vari paesi, ed è proprio in quel periodo che è nata la convenzione di mandare figure politiche diverse, come il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio o il Ministro degli Esteri accompagnati da gruppi di 100 o 200 grandi imprenditori. È da lí che è nato il concetto di sistema paese. Queste missioni sono state nominate “di sistema” in cui il Paese veniva presentato, non solo politicamente, ma anche a livello economico. Questo ci ha aiutato moltissimo a portare l’Italia in Paesi che culturalmente erano lontani come la Cina, il Giappone, la Tailandia, il sud-est asiatico, uno spazio di crescita di 500 milioni di persone, cioè due volte e mezzo il Brasile. Inoltre facevamo i negoziati per il riscadenziamento del debito, perché c’erano dei paesi talmente indebitati che non riuscivano più a pagare il debito con l’Italia.

CI – Può fornire degli esempi?
AF – Il primo paese è stato il Vietnam: abbiamo riscadenzato quasi 50 milioni di dollari e due anni dopo ci hanno importato merci per più di quella cifra. È stata un’operazione politica, gli abbiamo tolto il cappio dal collo. Inoltre abbiamo fatto in modo che tutti gli europei e gli americani ci seguissero, in modo che loro, liberati dal debito, han potuto crescere molto rapidamente. Poi i soldi ci sono tornati per altri canali, con le esportazioni. È stato un lavoro molto interessante: contribuito alla preparazione delle missioni del primo governo Prodi in Asia. Il commercio è cresciuto da 14 a circa 27 miliardi di euro all’anno in quegli anni. Questo mi ha dato molta soddisfazione e mi ha abituato a pensare ai problemi dell’economia, di crescita e di sviluppo ed anche a capire le culture. Per esempio non riuscivamo a vendere il prosciutto di Parma in Giappone, ma poi siamo riusciti a sbloccare le esportazioni.

CI – Dopo questa esperienza, qual è stato l’incarico successivo? E dove?
AF – Dopo sono andato nelle Filippine. Avevo 28 anni ed ero il numero 2 nell’Ambasciata. È stata un’esperienza molto interessante perché c’erano 500.000 filippini in Italia e quindi tanti problemi consolari, ma è stata anche un’esperienza difficile perché ho dovuto affrontare il problema dei rapimenti di missionari italiani da parte degli estremisti islamici nel sud. Sono stati anni che mi hanno arricchito molto sul piano umano, però sul piano professionale sono dovuto crescere in fretta.

CI – Dopo quest’esperienza, qual è stata la successiva destinazione?
AF – Sono stato a Israele dal 2000 al 2004, sono stati anni molto interessanti perché era durante la seconda Intifada. Lì ero il numero tre, ero responsabile del consolato e della sicurezza degli italiani, poi sono stato il responsabile delle visite politiche ed ero il portavoce stampa dell’ambasciatore. Il problema più grave erano gli attentati: in quattro anni sono stati all’incirca 1.000 e c’erano molti italiani che venivano in pellegrinaggio religioso, oltre ai 10.000 residenti tra cui le migliaia di italiani che ci si erano trasferiti all’epoca del fascismo. Abbiamo lavorato per ricucire ferite storiche di questi italiani, grazie all’amore comune per l’Italia.

CI – Può descrivere la situazione in Israele in quegli anni?
AF – Almeno una notte alla settimana la passavo negli ospedali, quando c’erano gli attentati, per vedere che non ci fossero vittime italiane. Abbiamo dovuto sviluppare un meccanismo sia per dare informazioni corrette, sia per non dare informazioni devianti o comunque non corrette, che per uno Stato è un problema di immagine incredibile. Nelle tragedie la comunicazione è molto importante. Il rapporto più delicato è con le famiglie che vogliono dei nomi, dei dati e con la stampa perché vogliono delle cifre. Anche se si è molto diretti e duri, le famiglie preferiscono la verità. Mai mentire. Nel lavoro diplomatico mentire è la cosa piu pericolosa, perché si perde la credibilità e prima o poi si viene a sapere. Io non ho mai detto bugie.

CI – Com’era il suo quotidiano in questa situazione di continui attentati?
CI – Una volta sono andato a mangiare la pizza con mia moglie. Siamo usciti dalla pizzeria e 20 minuti più tardi è entrato un kamikaze ed è esploso il locale. Una pace in cui può succedere tutto in qualsiasi momento. Un’esperienza difficile perché oltre alla propria sicurezza bisognava pensare a tutti gli italiani, che in media erano tra i 12 e i 13 mila. E quindi ogni volta che succedeva qualcosa qualche italiano poteva essere coinvolto. In tale contesto abbiamo organizzato visite di tutte le nostre maggiori cariche istituzionali.

CI – Qual è stato il momento più difficile?
AF – La crisi della natalità nel 2002: c’era un gruppo di guerriglieri palestinesi che avevano occupato la chiesa dove è nato Gesù, a Betlemme. Sono stati circondati dall’esercito israeliano e avevano preso in ostaggio 5 giornalisti italiani. C’era un gioco di forze rilevante, tra America, Israele, il Vaticano, l’Italia e i giornali che dipendevano da testate che erano tra le principali in Italia, quindi è stata una trattattiva difficilissima. 

CI – Molte volte una persona prima di viaggiare si crea un’idea del paese in cui arriverà che non sempre riflette la realtà. È cambiata la sua impressione di Israele dopo averci vissuto? 
AF – Io mi aspettavo un paese più vicino alle sue origini, invece sono diventati più pratici, meno ideologici, più attenti alla vita quotidiana. Comunque rimane un paese con una grandissima forza interiore. 

CI –Dopo l’incarico a Israele è tornato a Roma per far parte dell’Unità di Crisi della Farnesina. Di cosa si occupa questa struttura?
AF – L’Unità di crisi si occupa di assistere gli italiani all’estero in situazioni di emergenza. Non solo i sequestri, ma anche disastri naturali, come lo tsunami (dicembre 2004 nell’Oceano Indiano), l’uragano Katrina (agosto 2005), tifoni a Cancun (dove c’erano 30.000 italiani in vacanza) e anche i rapimenti politici. Io ero il vice capo.

CI – Come avete gestito e reagito alla tragedia dello tsunami?
AF – Mi ricordo che la notte dello tsunami ci siamo riuniti la mattina alle 7. L’idea era di mandare un aereo in ogni principale località asiatica, in modo da garantire una via di fuga per gli italiani. Invece noi, all’Unità di Crisi, avevamo i dati aggiornati di dove stavano gli italiani. Quindi abbiamo detto al capo della protezione civile Bertolaso e ai militari di mandare gli aerei direttamente in quelle località. È stata una scommessa che si è rivelata positiva: in una giornata hanno portato via tutti gli italiani prima che molti Paesi facessero decollare il primo aereo. In queste situazioni bisogna prendersi dei rischi e imparare a tenere la paura sotto controllo. Chi non ha paura è un incosciente, è diverso. 

CI – Qual è stata la sua ultima esperienza, prima di arrivare a Brasilia? 
AF – Sono andato in Libano. Dopo la guerra, nel luglio 2006, mi ero appassionato al paese ed inoltre era cominciata l’operazione Unifil II delle Nazioni Unite, una delle missioni meglio riuscite della ONU. Il Libano è un paese unico perché è l’unico esempio al mondo di democrazia interconfessionale, dove i voti si danno in base al numero, ma anche all’appartenenza religiosa. Inoltre spesso è un tavolo da gioco di altre forze e poteri. Ha circa 56 giornali e circa 40 Tv, per quasi 4 milioni di persone, quindi è un centro di informazioni enorme dove si fa il grande gioco di diplomazia. 

CI – Il Medio Oriente, questa zona calda del Mediterraneo, secondo lei avrà l’opportunità di rinascere?
AF – Io continuo a considerare assurdo che il Medio Oriente, che potrebbe essere la zona più ricca del pianeta, sia in questa situazione, però forse ci arriveremo. Noi italiani stiamo lavorando tantissimo per la sua stabilizzazione. Siamo i primi esportatori in Egitto, siamo il primo partner commerciale in Libano. Sono paesi dove condividiamo ricchezza: più ricco e pacifico è il Medio Oriente, più ricca e prospera è l’Italia, c’è una comunanza oggettiva di interessi. 

CI – E della primavera araba, cosa ne pensa?
AF – È una grossa sfida, soprattutto per i giovani. Penso che come europei, forse troppo a lungo siamo andati a dire alla gente cosa doveva o non doveva fare. È una responsabilità molto importante che cade su di loro. Certo, noi possiamo aiutarli, possiamo cercare di favorire questi processi verso quelli che pensiamo siano gli obiettivi migliori, ma loro devono scegliere.

CI – L’Italia è più simile al Medio Oriente o all’America Latina?
AF – Ci sono in realtà delle similitudini trasversali che sono il calore, l’attenzione alla vita. Sono realtà diverse, però allo stesso tempo c’è una creatività, un calore umano, un gusto per la vita che accomuna tutte queste aree. Io credo che la vera comunanza che abbiamo con l’America Latina sia una cultura alla base della quale sta la felicità dell’uomo che è una missione per lo Stato, e non viceversa. Qui in Brasile sono stato accolto in modo molto affettuoso, non ho sentito una grossa scossa culturale. I brasiliani sono un popolo orgoglioso, però allo stesso tempo amichevole e aperto.

CI – Dopo il Medio Oriente, le hanno affidato di essere il braccio destro dell’Ambasciatore a Brasília. Come si trova?
AF – Per me è interessante perché ho già fatto tutti i lavori che potevo fare in un’ ambasciata, però li ho sempre fatti su scala minore. La mia grande sfida personale adesso è quella di lavorare in una dimensione continentale. L’ambasciatore La Francesca deve timonare una realtà di sei consolati di carriera, 80 tra consolati onorari e agenzie consolari. È una delle reti più grandi al mondo. La scelta è quella di puntare molto sul soft power, proponendo il Sistema Italia nella sua interezza, in modo tale da aumentare anche i rapporti economici nelle due direzioni. Noi speriamo che sia un flusso, uno scambio di cultura produttiva bidirezionale. 

CI – Tra i nuovi progetti della presidente del Brasile, è stato recentemente approvato Ciências sem fronteiras, un programma che mira all’internazionalizzazione della scienza attraverso l’interscambio di studenti in fase di laurea e di post-laurea. L’Italia vi parteciperà?
AF – La trovo un’eccellente iniziativa. La presidente Rousseff ha capito che per completare la crescita del Brasile bisogna creare una generazione di studenti cosmopoliti che conoscano il mondo e che abbiano tutta una serie di stimoli. Lei vuole creare una classe di giovani creativi che siano in grado di far fare un salto ulteriore al paese. Ci sono 5 paesi leader, noi siamo il quinto: accoglieremo 6.000 studenti brasiliani nei prossimi 4 anni. Sembra che le richieste siano molto superiori già adesso. 

CI – Come vede la situazione attuale dell’Italia?
AF – Si è sentita l’esigenza di un governo tecnico che potesse fare delle scelte più difficili, però allo stesso tempo credo che sia nata una presa di coscienza di tutti gli italiani che c’è stato un quadro mondiale che è cambiato e noi non possiamo più vivere come abbiamo vissuto gli ultimi decenni, una situazione di relativa serenità interna. Ma credo che stiamo reagendo con grande dignità e fermezza e che il paese stia affrontando questo periodo con un grande senso di responsabilità.