Come e perché la riorganizzazione del sistema di “welfare state” su nuove basi può divenire un volano per lo sviluppo del Paese
Poche settimane fa sono stato invitato ad una tavola rotonda dal titolo suggestivo: “Organizzare l’altruismo”. Il dibattito si svolgeva a Caltagirone, la mia città natale, e oltre al sottoscritto e ad altri politici vi partecipava il Senatore Treu, autore insieme al collega Ceruti dell’omonimo libro, pubblicato nel 2010 in Italia dalla casa editrice Laterza.
Il tema mi stimolava, forse perché nel corso dei miei trenta anni di vita associativa, sindacale e politica ho provato a mettere in pratica quello slogan, apparentemente contraddittorio ma sicuramente affascinante. “Organizzare l’altruismo” ha voluto dire per me mettere sempre gli “altri” al centro del mio impegno, del mio lavoro. L’ho fatto quando ero un giovane ‘scout’, prima, e un dirigente dell’Azione Cattolica, poi; l’ho fatto quando ho scelto di studiare sociologia e di impegnarmi in tal senso nel sindacato; l’ho fatto, infine, nella mia lunga esperienza politica, iniziata proprio a Caltagirone nei giovani socialisti e culminata in Brasile con la militanza nei Democratici di Sinistra prima e nel Partito Democratico poi.
Ma organizzare l’altruismo non è, a mio parere, soltanto una opzione di vita. Come dicono gli autori del libro, l’organizzazione dell’altruismo è fondamentale per ricostruire in Italia e in Europa il sistema di “welfare state”, lo Stato sociale messo in crisi dalla globalizzazione e dalla gravissima crisi economico-finanziaria di questi anni.
Quello che succede in questo momento in Italia è indicativo in tal senso: politiche e scelte economiche recessive stanno strangolando la crescita del Paese, diminuendo il potere d’acquisto della classe media e aumentando la disoccupazione e la povertà.
Un circolo vizioso dal quale il nostro Paese non riesce ad uscire fuori; un paradosso che adesso molti parlamentari della stessa maggioranza che sostiene il governo iniziano a denunciare e a contrastare.
Un esempio di altruismo intelligente possono essere le politiche messe in atto a favore dei lavoratori stranieri in Italia e degli italiani che vivono all’estero. In una società globalizzata, nella quale la violenta competizione internazionale è anche caratterizzata dal fattore demografico (quantità e qualità della forza lavoro, in primo luogo) l’Italia si permette il lusso di emarginare dal proprio modello di sviluppo una popolazione di circa dieci milioni di persone. Tanti sono infatti gli stranieri che vivono in Italia e i cittadini italiani che vivono all’estero. Entrambi estromessi, nei fatti e in maniera diversa, da una piena partecipazione alla vita sociale ed economica del Paese.
Ai cittadini stranieri non viene concesso il diritto di voto, per esempio, nonostante vivano da anni nelle nostre città e contribuiscano con il loro lavoro alla crescita del Paese; agli italiani nel mondo, al contrario, sono stati riconosciuti i diritti civili con il voto, ma viene loro negata una piena partecipazione alla vita italiana (e i tagli alle politiche per la lingua e l’assistenza, come anche i problemi e le lentezze per il rispetto della legge sulla cittadinanza ne sono solo un piccolo esempio).
Entrambe le categorie, infine, sono escluse dalle politiche di integrazione sociale: tutte le misure del governo Berlusconi in questa materia – dalla ‘social card’ all’inasprimento delle condizioni di accesso alla ‘pensione sociale’ – sono state prese senza tenere in considerazione, e in alcuni casi anzi contrastando, la presenza di un contingente che sfiora ormai il venti per cento della popolazione italiana.
Quanta ricchezza potrebbe invece derivare al Paese dallo sviluppo armonico di politiche di integrazione piena degli stranieri in Italia e degli italiani all’estero? Si rafforzerebbero sicuramente i legami tra l’Italia ed il resto del mondo, proprio in un momento di forte crisi della domanda interna e di ricerca spasmodica di nuovi sbocchi nei mercati internazionali per i prodotti della nostra industria manifatturiera in crisi.
Ma per fare tutto ciò occorre una politica diversa, dei politici diversi, capaci di “costruire e organizzare l’altruismo” sapendo che i risultati di questa scelta strategica si tradurrebbero in reali vantaggi a medio e lungo termine per la ripresa del ciclo di crescita ormai fermo da alcuni anni.