Da Roma sostegno logistico e addestramento, Tripoli pattuglia
Quel che è stato chiamato ‘accordo’, in realtà, è un “Memorandum di intesa”: un termine meno deciso di accordo, ma che fotografa più la direzione sulla quale Italia e Libia si sono incamminati nei rapporti reciproci che un’agenda e un calendario di interventi. Roma, si legge tra l’altro, si impegna “a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, e che sono rappresentati dalla guardia di frontiera e dalla guardia costiera del ministero della Difesa, e dagli organi e dipartimenti competenti presso il ministero dell’Interno”. E’ Tripoli, dunque, a pattugliare le proprie coste e il proprio mare. Su questo era stato abbastanza chiaro il capo del “Governo di riconciliazione nazionale”, al Serraj, in occasione dell’annuncio dell’intesa, affermando che la missione navale Sophia non potrà entrare nelle acque territoriali del paese africano. Non è chiaro, a questo punto, come il Memorandum riesca a rendersi compatibile con la missione Sophia, il cui programma di addestramento sfornerà il prossimo 12 febbraio i primi 89 ufficiali e sottufficiali della Marina e della Guardia costiera libica e che prevede, nella seconda delle quattro fasi in cui è suddivisa, l’intervento in acque territoriali libiche a seguito di una Risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Il nodo cruciale dal punto di vista dell’efficacia del piano è rappresentato dalla esiguità della flotta libica e dalle somme disponibili per metterlo in atto. Tripoli – ha affermato in Parlamento il ministro della Difesa, Roberta Pinotti – è in attesa di dieci pattugliatori, che erano stati promessi tempo fa e che non sono mai arrivati. Esiste, sì, un “fondo di 200 milioni di euro per il controllo della frontiera esterna” da utilizzare – ha spiegato il ministro degli Esteri, Angelino Alfano – dunque “per non far partire” i migranti, ma siamo ben lontani dai sei miliardi di euro stanziati (ma ancora non del tutto sborsati) per Ankara affinchè quest’ultima si preoccupi di sigillare la frontiera con la Siria o di controllare il flusso di rifugiati. Servirebbe, inoltre, un controllo interno al continente africano, tra Libia e Niger, dove l’Italia ha inviato un ambasciatore per discuterne con le autorità locali.
I centri di accoglienza in Libia: inferni per migranti
Una volta intercettati, i migranti vengono radunati nei centri di accoglienza in Libia. Il Memorandum ribadisce che i campi di accoglienza temporanei in Libia sono “sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine”. Quei campi, sostengono le ong, sono veri e propri inferni: sono 24, ha spiegato a Repubblica Carlotta Sami, portavoce dell’Alto commissariato per i rifugiati, e sono di “non accoglienza: vi si praticano violenze, torture, abusi. Le donne subiscono stupri ripetuti”. Tripoli, inoltre, non ha firmato la Convenzione di Ginevra sui diritti umani. Nel mirino delle ong, oltre ai punti specifici dell’accorso, c’è proprio la concezione di fondo che lo sorregge e che lo avvicina al ‘muro’ di Donald Trump: “E’ un accordo cinico, ipocrita, fallimentare, disumano”, ha twittato Medici senza frontiere (Msf) rivolgendosi a Gentiloni. Il Memorandum “intende costruire in mare una barriera che impedisca a chi fugge di raggiungere le frontiere dell’Europa. Per migliaia di esseri umani – ha scritto Tommaso Forte, capo di Msf in Italia – il muro virtuale in corso di costruzione nel Mediterraneo Centrale avrà come immediata conseguenza detenzioni arbitrarie, maltrattamenti, stupri, sfruttamento e respingimenti nei paesi di origine. Senza alcun riferimento ad alternative sicure per coloro che non possono più restare in Libia o che sarebbero in pericolo di vita qualora venissero rimandati nei rispettivi paesi di origine”.
Accordo, con chi? Un Paese, tre autorità di governo
Chi ha scritto e siglato il Memorandum naturalmente, non cade dalle nuvole e non è un sognatore. Paolo Gentiloni stesso ha seguito il quadro libico fin dal suo insediamento nella carica di capo della Farnesina, poi lasciata ad Angelino Alfano. Roma e Tripoli, si legge nel testo del Memorandum,esprimono “consapevolezza della sensibilità dell’attuale fase di transizione in Libia, e della necessità di continuare a sostenere gli sforzi miranti alla riconciliazione nazionale, in vista di una stabilizzazione che permetta l’edificazione di uno Stato civile e democratico”. Roma non vuole la divisione della Libia, e in questa direzione di ricucitura tra le fazioni lavora l’ambasciatore Giuseppe Perrone, ma oggi il controllo del territorio del paese africano, è nelle mani di almeno tre autorità de facto: il governo di riconciliazione nazionale, presieduto da al Serraj e riconosciuto dall’Onu; le forze militari del generale Khalifa Haftar nella Cirenaica, che a loro volta fanno riferimento al sedicente governo di Tobruk di Abdullah al-Thani (ma è Haftar a dettare legge); il ‘Congresso nazionale’ dell’ex primo ministro Khalifa Ghwell, che periodicamente si fa vivo con tentativi di golpe o insurrezioni militari. Se quest’ultimo non pone gravissimi problemi, cioè non è vero per Haftar, che invece dispone di una forza militare e di un carisma decisivi. E sebbene al Serraj stia provvedendo alla costruzione di un esercito e l’Isis sembri sulla difensiva è con Haftar che per molti bisogna parlare. Lo ha detto ieri il ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson, lo ha ribadito oggi Alfano in Parlamento. Tutti, con un occhio alle mosse di Mosca, che, alla ricerca di un ruolo nel Mediterraneo, a metà gennaio scorso ha ospitato Haftar sulla portaerei “Ammiraglio Kunetsov”. E non era certo una visita di cortesia. (Agência Brasil)