Comunità Italiana

Quando la retorica impera

L’uso della retorica nella comunicazione italiana è una tendenza che viene da lontano. La docente all’USP Loredana Stauber Caprara spiega a Comunità la sua ultima ricerca e il curioso caso dell’origine italiana di Pedrinhas

Triestina doc. La prima volta che la prof.ssa e dott.ssa Loredana Stauber Caprara è stata in Brasile è stato nel 1962 per motivi di famiglia, per poi trasferirsi definitivamente a San Paolo nel ’75, dove vive tutt’ora. Attraverso l’analisi dei discorsi televisivi e politici ha analizzato l’evoluzione della lingua e della società italiana.

— Nel 1976 sono entrata all’Università di San Paolo (USP) e lì ho iniziato la mia carriera di docente in Brasile — ricorda.

Comunità Italiana – Com’è nata quest’analisi sul discorso retorico e antiretorico nella comunicazione dei media in Italia?

Loredana Stauber Capraba – Mi sono resa conto, ascoltando le trasmissioni della RAI, che molte volte il discorso televisivo italiano è ancora improntato sulla retorica: sono testi preparati, con un vocabolario scelto con effetti di ripetizione, che molte volte sono recitati, non pronunciati naturalmente o spontaneamente. Tutti usano questi effetti, basta pensare ai discorsi del presidente degli Stati Uniti, Obama: sono discorsi preparatissimi, studiati con tutte le regole della retorica. 

CI – C’è una differenza tra questi due usi della retorica?

LSC – Il modo di pronunciarli. Nel caso di Obama è un modo semplice, spontaneo, non sembra che stia recitando. Mentre lo è. È molto interessante come da una base così studiata, venga fuori un discorso che sembra così naturale, mentre in Italia succede il contrario. Questa è una cosa che mi ha colpito moltissimo specialmente in quest’ ultimo periodo che è tornata mia figlia che vive negli Stati Uniti e me lo fa notare tutte le volte che accendo la tv.

CI – E i discorsi politici italiani? Anche lí impera la retorica?

LSC – Un bellissimo uso della retorica, per quanto riguarda l’italiano, sono i discorsi del presidente Giorgio Napolitano che parla in un modo bellissimo, evidentemente studiato, ogni parola è pesata, ma c’è un afflato personale molto grande che non è artificiale. Invece in alcuni programmi televisivi, ad esempio quando si parla di opere d’arte, il discorso diventa paludato, come le statue antiche che hanno degli abiti romani con tutte quelle pieghe, ben disposte, che nella realtà non sarebbero mai così belle.

CI – Ha analizzato anche i discorsi televisivi delle recenti celebrazioni televisive dei 150 anni dell’Unità d’Italia?

LSC – Sono partita dalla costatazione che nei programmi televisivi c’è molta retorica. Nel senso di discorso scelto, dove ogni parola è pesata, con alti e bassi nei toni di voce. Quindi i discorsi celebrativi dei 150 anni dell’Unità d’Italia dovevano essere quantomeno noiosi. Ma una domenica ho visto una ripresa del Festival di Sanremo e mi sono trovata di fronte a un’interpretazione dell’inno italiano di Benigni, bellissimo! Quest’inno che è stato tanto bistrattato, che i nostri atleti non volevano cantare neanche quando vincevano. Pensa un po’… “Siam pronti alla morte…” Tu lo canteresti?

CI – E Benigni?

LSC – Lui ha presentato l’inno in una forma diversa. Arriva in scena a cavallo, scende e fa la lode dell’animale “Il cavallo è memorabile, memorabili sono anche i personaggi del Risorgimento: Silvio Pellico, Goffredo Mameli, morto a 21 anni per una ferita ricevuta sotto le mura di Roma nel ’49.” E a un certo punto dice “Io vi racconto la storia di un ragazzo che come Goffredo Mameli, cosí si preparava alla battaglia, quella battaglia che avrebbe potuto portarlo alla morte, però bisognava andarci”. Racconta la storia e spiega che il ragazzo riflette su questa cosa, con questo suo vocabolario strano che ha imparato a scuola “l’elmo di Scipio”. Quando arriva a “pronti alla morte”, la voce di  Benigni si abbassa, si rompe e canta, in questo modo antiretorico al massimo. Benigni da grande comunicatore com’ è, capace di sfruttare l’umorismo, in questo caso, dopo aver scherzato sull’inno, ne ripropone il profondo sentimento patriottico, perché in fondo il ragazzo di cui parla l’inno va, combatte e Mameli, lui stesso è morto.

CI – Nell’Italia di oggi esiste ancora questo sentimento patriottico?

LSC – Secondo me è nascosto. Esiste indubbiamente nel presidente Napolitano, si sente. In Berlusconi un po’ meno, dice “questo paese di merda, io andrei via”, però via lui non ci va. Lui rimane. Ma lui rappresenta un’altra Italia, non tutta. Se fosse solo lui non sarebbe li dov’è. C’è qualcuno che lo vota e più di qualcuno. Anche se gli avversari non sono una grande cosa, non hanno molto midollo. Non sanno neanche fare uso della retorica.

CI – Nelle canzoni possiamo notare il modificarsi del linguaggio italiano attraverso il tempo. I testi dell’opera, che usavano un linguaggio colto, potevano raggiungere tutta la popolazione?

LSC – Il mio concetto è sempre stato che non è vero che gli italiani incolti, persone che avevano fatto soltanto le elementari, che non avevano una preparazione, non conoscevano l’italiano. Il piccolo artigiano della città di 150 anni fa conosceva un po’ di italiano. Non ci sarebbe potuta essere una diffusione come c’è stata del teatro d’opera in città grandi e piccole in tutta Italia se non ci fosse stato un pubblico che seguiva, che capiva e ricantava le arie. Ricantare significa in un certo senso appropriarsi un po’ della lingua. Le parole importanti sono ripetute varie volte, quindi rimangono nella memoria perché funziona attraverso parole-chiavi. E cosí, con l’opera, imparavano un po’ di italiano un po’ più colto, poi bisogna vedere come lo usavano.

CI – Si è anche occupata delle canzoni di emigrazione.

LSC – Sono molto interessanti perché si vede che molte volte sono in dialetto o altre volte sono in una lingua intermedia tra il dialetto e l’italiano. Erano canzoni che le persone capivano, quindi vuol dire che questa conoscenza dell’italiano non era corretta. Questo concetto degli italiani per cui la lingua o è perfettamente corretta o non è lingua… Questo non è vero! La lingua è lingua quando comunica. Bisogna stare attenti perché sono questi dogmi che ci portano fuori dalla verità reale delle cose. Nella vita comune non è cosí. Ci sono vari livelli di comunicazione e questo che si è dimenticato in Italia. In Italia si è sempre pensato che parlare bene significasse esprimere bene se stessi. Ma esprimere bene se stessi a chi? C’è un discorso di comunicazione: io parlo per comunicare, per mettermi in rapporto con gli altri. Tu puoi rimanere perfettamente corretta ed essere cosí piatta da non toccare l’altro. La correttezza formale non è cosí importante. Io credo che si perde molto tempo all’università cercando di insegnare la correttezza formale, che non si insegna.

CI – Lei ha coordinato una ricerca su come parlano gli italiani in Brasile. La ricerca si è svolta a San Paolo, infatti il titolo della ricerca era l’italiano degli italiani di San Paolo. Cosa ne è venuto fuori?

LSC – Questa ricerca è stata divisa in gruppi. Io ho lavorato seguendo alcune indicazione di due linguisti, il professor Ataliba Castilho, che aveva lavorato sul portoghese colto e il torinese Rodolfo Ilari. Per prima cosa ho raccolto del materiale di italiani colti, cioè di persone che avessero fatto l’università in Italia, perché c’era il problema, molto dibattuto con Ilari, del dialetto. Ilari era venuto in Brasile subito dopo la guerra in un periodo in cui il dialetto era molto forte, mentre io avevo vissuto a Milano e alla fine degli anni ‘70 non era più cosí, tutti parlavano italiano. Ho fatto questa prima ricerca negli anni ‘80. È chiaro che le persone dovevano avere un certo periodo di residenza in Brasile. Noi facevano quest’intervista a vari livelli, cioè si ponevano domande su vari argomenti che richiedevano un discorso più colto e altri più casalinghi, come “cosa continuate a mangiare? Quali prodotti si trovano in Brasile e quali no?” e una signora nel corso dell’intervista spiega che i nomi delle verdure e della frutta li aveva imparati in portoghese o anche in casa con la donna di servizio; lei usava parole come fogão, geladeira. Quindi abbiamo visto che persone di una certa cultura, avevano perso vivacità nel discorso, avevano un vocabolario più ristretto, ma continuavano a parlare italiano. Questa ricerca è poi stata pubblicata nel 2000.

CI – Durante le sue ricerche, ha scoperto anche una colonia agricola italiana in un paesino in provincia di San Paolo.

LSC – I beni italiani durante la guerra sono stati sequestrati; finito il conflitto, col trattato di pace sono stati restituiti a patto che gli italiani non riportassero questi soldi subito in Italia, ma rendessero possibile la formazione di colonie agricole in Brasile. L’unica colonia che realmente è stata realizzata è stata quella di Pedrinhas Paulista, vicino ad Assis. È stata comprata una azienda, è stata lottizzata, è stato ripulito il terreno e sono state costruite delle case semplici, di modo che gli immigrati che sono stati poi mandati dall’Italia, trovassero già una sistemazione insieme al minimo per poter sopravvivere e gli arnesi per poter lavorare. Nel 1952 è arrivato il primo gruppo di italiani: erano 28 persone provenienti da varie regioni d’Italia, in modo che non fossero tutti veneti o toscani o meridionali, in modo da creare un gruppo misto di italiani.

CI – E chi era a capo di questa colonia agricola?

LSC – All’epoca governava la Democrazia Cristiana e quindi chi gestiva questo gruppo di immigranti era un sacerdote trevigiano, don Ernesto, che con mano di ferro ha mantenuto, durante 20 anni, l’unità di questo gruppo. Tutti dovevano andare in chiesa e lí le funzioni erano in italiano, non in dialetto. Inoltre questo sacerdote era riuscito a trovare delle suore toscane che sono venute ad aprire un asilo d’infanzia. In questo modo anche i bambini hanno imparato l’italiano. A quell’epoca non era ancora un paesino, erano case sparse, con pochissima gente. E cosi un po’ alla volta sono arrivati altri italiani insieme a dei brasiliani, perché si erano creati dei posti di lavoro e hanno finito per avere tutti come lingua franca un po’ di italiano. Ho aiutato le mie studentesse ha fare delle tesi di laurea e di post-laurea su questo caso curioso.

CI – Com’è adesso questa comunità?

LSC – Attualmente hanno costruito degli archi di trionfo. Si sentono molto discendenti dei romani. Adesso sono i figli dei figli che vivono lí. C’è un servizio di insegnamento dell’italiano, organizzano le feste italiane ed è diventata anche un’attrazione turistica.

CI – È stato oggetto di varie ricerche di studio questo caso?

LSC – Una mia alunna ha fatto una ricerca sul vocabolario alimentare degli abitanti di Pedrinhas. La sua mamma era calabrese e lei ha ritrovato molte parole relative all’alimentazione in dialetto calabrese. Queste persone si esprimevano in un italiano semplice, non troppo corretto, ma in italiano. Loro dicevano che in famiglia ognuno continuava parlando dialetto, però l’italiano lo capivano perché con il prete bisognava parlare in italiano.