Ma un conto è sapere che un giorno qualcuno potrebbe trovare qualcosa di interessante, un altro è mostrare il tweet al vetriolo scritto di getto quando Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti, alla dogana di New York. Anche perché non esistono regole su come le nostre informazioni vengono raccolte, conservate e inoltrate ad altre agenzie federali (qui The Verge sulla organizzazioni umanitarie che protestano). In realtà in questa fase le credenziali social sono una richiesta che il turista può anche declinare senza vedersi negare l’ingresso negli Stati Uniti, ma è chiaro che un diniego alla frontiera apre tutta una serie di sospetti ai quali nessuno vuole sottoporsi. Anche perché il tutto avviene online: questa procedura riguarda i 38 paesi che hanno un accordo per un visto temporaneo di 90 giorni che si ottiene compilando un modulo su un sito web e pagando 14 dollari: l’ESTA. Se non compili la parte relativa ai social media, scatta un allarme automatico insomma. La questione del confine fra libertà, privacy e sicurezza è la grande questione del nostro tempo come si è visto anche nel celebre caso dell’iphone del presunto terrorista di San Bernardino che la Apple si è rifiutata di decodificare dicendo che non era tecnicamente in grado di farlo. Nessuno vuole abbassare la guardia nella lotta al terrorismo ma deve essere chiaro un principio. Il massimo di sicurezza, il 100 per cento, si ha in un regime in cui la privacy dei cittadini è zero, chi governa sa tutto di noi. Ma anche la nostra libertà diventa nulla. Urge una soluzione equilibrata.(AGI)