Comunità Italiana

Vent’anni fa

Tecnico dell’azzurra nel 1994 Arrigo Sacchi ricorda la grande finale tragica per gli italiani e felice per i tifosi brasiliani e rischia un pronostico per la Coppa del 2014

E’ il 17 luglio 1994. A Pasadena, in California, la colonnina di mercurio segna trentasei gradi. Alle 12.30, nel fuso della west coast, l’arbitro ungherese Puhl fischia l’inizio di Italia-Brasile: è la finale della quindicesima edizione del campionato mondiale di calcio e sugli spalti dello stadio Rose Bowl sono presenti quasi centomila spettatori. Tanti i supporter italiani, ma la gran parte degli spalti è colorata verde-oro. L’orario, decisamente inconsueto, è stato studiato per consentire agli appassionati europei di seguire il primo mondiale organizzato negli Stati Uniti. Lo spettacolo, però, ne risentirà pesantemente. L’afa, infatti, penalizzerà il Brasile di Carlos Alberto Parreira e ridurrà allo stremo delle forze gli azzurri di Arrigo Sacchi, poco abituati a temperature così elevate e alle prese con le precarie condizioni fisiche di diversi giocatori.
I primi 90 minuti scivolano via senza particolari sussulti: Daniele Massaro, in avvio, potrebbe portare in vantaggio l’Italia, ma sciupa da buona posizione. I sudamericani rispondono con Branco, che sfiora il gol sul punizione. Dino Baggio regala l’ultima emozione prima dei tempi supplementari, con un tiro che finisce di poco alto sopra la traversa. C’è da giocare un’altra mezz’ora, ma le due squadre non hanno più benzina nelle gambe: il risultato non si schioda dallo zero a zero e si va ai calci di rigore. Il primo a tirare è Franco Baresi: alto. Gli azzurri tornano a sperare grazie a Pagliuca, che respinge il tiro di Marcio Santos e ad Albertini, che trasforma dal dischetto. Tocca a Romario: palo interno e rete. Evani riporta in vantaggio l’Italia e Branco ristabilisce nuovamente la parità. Poi tocca a Massaro, che si lascia ipnotizzare da Taffarel, mentre Dunga non sbaglia. Le residue speranze azzurre sono appese a un filo, più precisamente ai piedi di Roberto Baggio: il tiro dagli undici metri è alto. Il Brasile è campione del mondo.

“Nessun rimpianto”
Alla gioia del popolo verde-oro, fanno da contraltare lo sguardo impietrito del c.t. azzurro e le lacrime di Roberto Baggio e Franco Baresi. Arrigo Sacchi, che in quella calda giornata di luglio guidò l’Italia ad un passo dalla vetta più alta del calcio mondiale, a vent’anni di distanza sfoglia il libro dei ricordi con Comunità.
— Non ho nessun rimpianto per come è finita, ho smesso di pensarci già da un po’ di tempo e quella partita non è mai stata la mia ossessione. C’è soltanto da essere orgogliosi per quanto è stato fatto dalla squadra e per aver ottenuto uno splendido secondo posto — mette in chiaro il coach.
Sacchi, in quegli anni, era il profeta del calcio totale, il teorico della marcatura a zona e del gioco a trazione anteriore. Per la prima volta un commissario tecnico della nazionale italiana rompeva con la tradizione del catenaccio e schierava un undici propositivo e votato all’attacco.
—  Il nostro gioco si basava molto sul pressing, sul dinamismo e sulla velocità. Quella finale si giocò sulla costa ovest, in condizioni climatiche impossibili e il caldo non ci consentì di esprimerci come avremmo voluto e potuto — mette in rilievo l’ex allenatore dell’Italia, che pochi anni prima aveva dato spettacolo alla guida del Milan di Gullit, Rejkard e Van Basten.
Sacchi non è in cerca di alibi o di facili giustificazioni. Sono cose di cui non ha bisogno, che non gli appartengono e che non risulterebbero in linea con lo stile di un personaggio al quale l’onestà intellettuale non ha mai fatto difetto.
— Il Brasile, per quanto fece vedere durante tutto l’arco del mondiale, probabilmente meritò la vittoria. Quella finale, però, fu molto equilibrata e i nostri avversarsi, che fino a quel momento erano sembrati imbattibili, ebbero la meglio soltanto ai rigori — riconosce il tecnico.
Baresi scese in campo a soli ventiquattro giorni da un intervento al menisco, Roberto Baggio era acciaccato e Mussi dovette uscire nel primo tempo a causa di uno stiramento. Stoici i giocatori in maglia azzurra, che riuscirono a reggere fino alla fine. Nonostante tutto, nonostante il caldo. Già, proprio il caldo, appiccicoso e asfissiante, è il ricordo che affiora con maggiore chiarezza nella mente dell’allenatore.
— Le temperature, che oscillavano tra i 35 e i 40 gadi, di notte non ci permettevano di dormire e di giorno, in alcuni momenti, non ci consentivano neanche di allenarci. Non mi è mai capitato, nel corso della mia carriera, di avere mezza squadra che alla fine del primo tempo mi chiede di essere sostituita — spiega Sacchi.

Squadra fu esempio di professionalità e serietà
E’ anche vero, però, che l’Italia, nel corso dell’intera competizione, non riuscì mai ad esprimere pienamente quel calcio-champagne teorizzato e predicato da Sacchi. Probabilmente, imprimere un’impronta di gioco così marcata ad una selezione nazionale, è una missione impossibile per qualsiasi tecnico: troppo poco tempo a disposizione, per incidere sul credo tattico della squadra e preparare adeguatamente i giocatori. Nelle squadre di club è tutta un’altra musica. Il Milan di Sacchi,  tanto per fare un esempio, pochi anni prima era stato un capolavoro di estetica e di efficacia, ma aveva potuto contare su due mesi di preparazione estiva e su un lungo ciclo di allenamenti quotidiani.
L’Italia del ’94 non era l’Italia che avrebbe voluto Sacchi, ma aveva l’anima e il carattere del suo allenatore. Gli azzurri sopperirono alle carenze e alle lacune con altre armi: l’umiltà e l’intensità. Due concetti molto cari all’ex commissario tecnico della nazionale.
— Quella squadra fu un grande esempio di professionalità e serietà, si dimostrò un gruppo granitico, che non mollò mai di un centimetro e affrontò anche la finale con la giusta modestia e la necessaria determinazione. Anche nel resto della competizione fornimmo delle straordinarie dimostrazioni di forza e di spirito di squadra: contro la Norvegia vincemmo in dieci, mentre agli ottavi di finale superammo la Nigeria ai supplementari, per due a uno, chiudendo la gara con due uomini in meno — rimarca Sacchi con una punta d’orgoglio.
Nulla da rimproverare ai giocatori, che vissero come un dramma la sconfitta subita a Pasadena.
— Prima dell’inizio del torneo feci un sondaggio tra i ragazzi e venne fuori che sarebbe stato un grande successo raggiungere i quarti di finale. Al termine della partita contro il Brasile notai che erano tutti a pezzi, c’erano giocatori in lacrime e musi lunghi. Così, quando scendemmo negli spogliatoi, dissi a tutti: ma allora non siete mai contenti, siamo andati molto al di là delle nostre previsioni, siamo stati bravissimi — racconta Sacchi.
Fa male, però, sfiorare il cielo con un dito ed essere riportati sulla terra proprio sul più bello.
— In quel mondiale così complicato, caratterizzato da un clima difficile e da tanti infortuni, le squadre migliori alla lunga vennero fuori e l’Italia era tra queste. Arrivammo a giocarci tutto ai rigori, che sono soltanto una lotteria. D’altronde nel 2006 gli azzurri di Lippi hanno vinto il mondiale dal dischetto e sono stati acclamati come i più bravi del mondo, nel 1994 abbiamo perso il mondiale nello stesso modo e siamo ricordati come dei falliti. Purtroppo il calcio è anche questo — osserva l’allenatore.
Mancano pochi mesi, ormai, all’inizio di una nuova avventura mondiale, che questa volta avrà come cornice il Brasile. ComunitàItaliana ne approfitta per interpellare un profondo conoscitore di calcio internazionale.
— Non ho la possibilità di prevedere il futuro e di indovinare chi alzerà la coppa e allora preferisco volgere lo sguardo al passato, che tuttavia non riserva segnali incoraggianti per gli azzurri. Oltreoceano le squadre europee non hanno mai vinto, l’Italia è arrivata in finale solo due volte, in Messico e negli Stati Uniti e in entrambi i casi non è riuscita a portare a casa il successo. Sono favorite soprattutto le squadre sudamericane e in particolare il Brasile, che gioca in casa, può contare su un pubblico caldo e appassionato e può mettere in campo una rosa di grande qualità — analizza l’ex c.t. della nazionale.