Il 25 marzo si festeggia nella capitale italiana il sessantesimo anniversario della firma dei trattati di Roma, che istituirono la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom). Nel corso dei decenni, le comunità europee sono evolute fino a diventare l’attuale Unione europea.
A lungo una delle istituzioni più amate dai cittadini italiani, oggi la Ue viene spesso criticata. Ma quante delle cose che si dicono su Europa, euro e Unione sono corrette? Siamo andati a verificarne cinque.
L’euro non ha fatto raddoppiare i prezzi
Uno dei bersagli più frequenti delle critiche all’Unione europea è la sua moneta unica, l’euro. A partire dai mesi pre-estivi ed estivi del 2002, anno in cui cominciò a circolare nelle tasche degli italiani, si scatenarono subito molte polemiche e proteste sull’aumento sproporzionato di prezzo di alcuni beni di frequente consumo, come caffè, tramezzini, pizze e via dicendo.
Ma questi rincari – denunciati dalla Commissione europea come legati ai comportamenti scorretti di singoli commercianti, e non all’euro in sé – hanno portato effettivamente a un aumento generalizzato dei prezzi, e insomma il costo della vita rispetto a quando c’era la lira?
A guardare i dati sull’inflazione – che, secondo dizionario, è proprio l’“aumento progressivo del livello medio generale dei prezzi” – la risposta è “no”.
Dal 2002 al 2015 l’inflazione è infatti cresciuta, in media, di circa 2 punti percentuali all’anno, tassi bassi come non capitava dagli anni ’60. Per fare un confronto, nei quindici anni precedenti, dal 1987 al 2002, l’inflazione era invece cresciuta di circa 5 punti percentuali all’anno.
Secondo il contatore curato dalla Camera di Commercio di Firenze sulla base dei dati Istat, dal primo gennaio 2002 al primo gennaio 2016 la variazione percentuale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati è stata del +25,8%. Dal primo gennaio 1987 al primo gennaio 2002, la variazione percentuale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati era stata invece del +80,8%.
Non è vero che chi non ha l’euro cresce di più
Oltre che per le ripercussioni sul costo della vita, come abbiamo visto più percepite che reali, l’introduzione dell’euro viene criticata anche perché avrebbe un effetto negativo sulla crescita economica degli Stati che lo hanno adottato.
Si tratta di un’affermazione falsa, smentita anche dai recenti dati sulla crescita percentuale del Pil dei vari Paesi membri dell’Ue.
Nel 2015 il gradino più alto del podio è dell’Irlanda, Paese dell’Eurozona, con un incredibile +26,3% del Pil, dovuto alla decisione di conteggiare nel proprio settore impresa le compagnie straniere che hanno spostato la loro sede in Irlanda. Seconda si piazza Malta, sempre nella moneta unica, con +7,4% di Pil nel 2015. Terzo posto va alla Repubblica Ceca, che invece non ha ancora adottato l’euro, con +4,5% di Pil.
Nel 2016 e 2017 il primato della crescita dovrebbe spettare alla Romania, Paese senza moneta unica ma che la vorrebbe adottare, seguita da Irlanda, Malta e Lussemburgo (area euro) e nel 2017 anche dall’Ungheria (che non ha la valuta unica).
Se poi paragoniamo il Regno Unito, unico grande Paese europeo senza euro, a Germania e Francia, vediamo che le previsioni di crescita non avvantaggiano Londra. Secondo i numeri dell’OECD, Londra parte da un dato leggermente migliore nel 2016 (il 2,03%) rispetto a Parigi (1,22%) e a Berlino (1,74%), (ma peggiore rispetto a Madrid, che cresce del 3,21%).
Nel 2017 il Regno Unito scende all’1,24%, sorpassata di pochissimo dalla Francia (1,29%) e maggiormente dalla Germania (1,65%). Nel 2018 il divario dovrebbe aumentare ulteriormente, scendendo Londra (0,96%) e migliorando Parigi (1,59%) e Berlino (1,73%). Anche l’Italia (che arriva poco sopra l’1%) nel 2018 dovrebbe fare meglio del Regno Unito.
Il referendum sull’euro
Parlando di euro, in Italia non si può non accennare al tema del referendum per abbandonare la moneta unica, ventilato da diverse forze politiche.
In base all’articolo 75 della Costituzione non è possibile tenere un referendum abrogativo, dunque con validità vincolante, su alcune specifiche leggi, tra cui quelle di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali. Quindi una consultazione popolare che obbligasse giuridicamente l’Italia ad abbandonare l’euro, la cui adozione dipende appunto da trattati internazionali, non sarebbe possibile.
L’unica possibilità è dunque quella del “referendum di indirizzo”. È una consultazione non vincolante e non contemplata nel testo della Costituzione, ma può essere previsto da una legge costituzionale ad hoc: è già accaduto nel 1989.
Le leggi costituzionali necessitano di un iter complesso per essere approvate. In base all’articolo 138 della Costituzione, sono necessarie due votazioni ad almeno tre mesi di distanza, ciascuna con una maggioranza assoluta dei favorevoli. Le modifiche devono poi essere approvate da un referendum popolare, che si può evitare se nella seconda votazione il Parlamento, in ogni sua Camera, si è espresso con maggioranza dei due terzi dei componenti.
Se i fautori dell’uscita dall’euro non avessero, dunque, una maggioranza del 66% in entrambe le ali del Parlamento dovrebbero fare un referendum, per prima cosa, sulla legge costituzionale apposita che autorizza lo stesso referendum.
Quanto prende e quanto dà all’Italia la Ue
Spesso sul tema vengono dati numeri un poco esagerati: si sente spesso, ad esempio, che l’Italia darebbe 20 miliardi di euro a fronte di appena 12 che le vengono concessi.
Secondo i dati della Commissione europea, il picco massimo raggiunto nei contributi versati, nel 2013, è di 15,748 miliardi, con una media negli ultimi dieci anni di circa 14 miliardi di euro all’anno.
Quanto ai miliardi ricevuti, nel 2015 sono stati 12,338. L’anno prima la cifra si era fermata a 10,695 miliardi, e nel 2013 era stata di nuovo poco superiore ai 12 miliardi di euro.
Nel 2015 la differenza tra dato e ricevuto è stata quindi inferiore a 1,9 miliardi di euro, nel 2014 era di 3,7 miliardi scarsi, nel 2013 di 3,2 miliardi, nel 2012 di 4 miliardi e nel 2011 c’era stato il record di 4,75 miliardi. Si può dire che, nell’ultimo quinquennio, il trend sia stato di una progressiva riduzione del divario.
L’Europa a più velocità
Doveva essere il tema centrale dell’attesa dichiarazione di Roma del 2017. Francia, Germania, Italia, Spagna e altri si erano espressi favorevolmente, ma i Paesi dell’Est (Polonia in primis) si erano detti preoccupati e contrari. Per avere tutte e 27 le firme in calce alla Dichiarazione è stato dunque necessario un compromesso al ribasso sul punto, vedremo di quanto.
Ma cosa sono “le diverse velocità”? Sono davvero “una truffa” come sostenuti dai critici anche in Italia, o uno “sminuimento” di alcuni Stati, come lamentato da polacchi e ungheresi?
Si tratta della possibilità per un numero ristretto di Stati membri di procedere a un’integrazione più stretta in diverse materie di competenza non esclusiva Ue (come politiche sociali, giustizia, mercato interno, politica estera e di difesa comune etc.) senza che sia necessario il consenso di tutti.
I meccanismi per portare avanti questo progetto sono già previsti dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il primo dicembre 2009, e sono le cooperazioni rafforzate e la cooperazione strutturata permanente nell’ambito della Politica estera di sicurezza e difesa (Pesd).
Per le prime è richiesto un numero minimo di 9 Stati membri che partecipino, mentre per la seconda non c’è un requisito numerico ma ci sono requisiti circa le capacità militari dei Paesi interessati. In entrambi i casi è sempre possibile, per gli Stati che non hanno aderito in un primo momento, chiedere di essere ammessi successivamente.
Finora le cooperazioni rafforzate sono state usate raramente e solo in ambiti limitati, come la legge applicabile in materia di divorzio, il brevetto europeo e l’istituzione di un’imposta comune sulle transazioni finanziarie.
Se dovesse emergere in alcuni Stati membri la volontà di rilanciare il progetto europeo verso una maggiore integrazione è prevedibile che questi strumenti saranno usati di più, e su materie più rilevanti, di quanto non si sia ancora visto finora. (AGI)